Pochi giorni fa mi sono trovata a parlare di letteratura in un contesto inconsueto: tra operai e agricoltori. Quando uno varca la soglia della Facoltà di Lettere, s’immagina che un giorno – prima o poi – farà lezione … davanti ad altri studenti. Per fortuna la realtà è più vivace delle nostre congetture.
E così mi sono trovata a dialogare con un operaio che lavora in uno zuccherificio, il quale mi ha francamente detto: “Lei, per mestiere, racconta delle storie. Ma a noi tocca la vita e la realtà, ed è tutt’altra cosa”. Gli ho confessato che avevo pensato la stessa cosa prima di mettermi a parlare. E gli ho però anche confessato che di fronte a lui mi trovavo, finalmente, a toccare con mano il peso, il valore e la concretezza della letteratura.
C’è chi sostiene che, quando Dante scrisse il famoso verso “nel mezzo del cammin di nostra vita” avesse usato l’aggettivo “nostra” in modo retoricamente accattivante (per strizzare l’occhio al lettore e invitarlo a leggere). Il suo stesso poema dichiara a chiare lettere che questa ipotesi di pura retorica è falsa. Non c’è cosa più difficile da dire che “nostra”, e farlo in modo autentico. Il più delle volte esiste il mio, da una parte, e il tuo dall’altra (… anche in famiglia). L’ipotesi che Dante butta lì all’inizio del poema viene costruita, verificata e messa alla prova in tutto ciò che segue il primo canto dell’Inferno: la Divina Commedia è il tentativo di guardare e dare lode alla Creazione come vincolo relativo, come tessuto di relazioni, in cui l’unicità di ogni individuo si intesse a tutte le altre unicità esistenti, creando non un caos ma un disegno. Non un caos ma un canto.
Non un caos, ma un canto. Oggi, il più delle volte, quando ci sono delle voci che si sovrappongono quel che ne esce è il bisticcio, la confusione, l’insulto o l’indifferenza. Si passa dalla rissa verbale al silenzio cocciuto, in men che non si dica. Perché l’umano ribolle dentro la realtà; ed ecco allora a cosa serve la letteratura: a far decantare le cose. Alla brutale e sfacciata esperienza, la letteratura oppone e propone la riflessione, che non è il pensiero filosofico erudito, ma il semplice atto di creare un vincolo di confronto e interesse tra i multiformi e sconcertanti fatti del vivere. Per fare davvero esperienza della realtà non basta lasciarsi vivere, occorre guardare a ciò che si vive – riflettere. Ecco il “nostra” di Dante: io, poeta, creo il tavolo a cui ogni uomo con il suo bagaglio di vita può sedersi, ascoltare e prendere parola.
L’operaio mi ha capito perfettamente quanto gli ho proposto questa ipotesi e io ho capito perfettamente l’operaio quando ha rivendicato il bisogno che le parole non fossero solo castelli per aria.
Ovviamente, quel che gli ho detto non era farina del mio sacco. L’aver sentito, fin dal tempo del liceo, Dante come padre e amico non lo devo a una mia capacità, ma a una predisposizione che ho potuto coltivare grazie a maestri e professori che – nei libri e nelle aule scolastiche – hanno fatto davvero il loro mestiere, quello di affondare lo sguardo nella letteratura per spalancarlo al mondo.
Tra questi maestri, uno dei riferimenti più importanti è stato quella della Professoressa Anna Maria Chiavacci Leonardiche è morta due giorni fa e che è una delle più grandi studiose della Divina Commedia. Ecco come lei stessa chiarì la coraggiosa pretesa che ha quel “nostra” usato da Dante: «La lettura di Dante è dunque, per l’uomo dell’Occidente, la lettura, cioè la presa di coscienza, della propria identità, coscienza che sola permette di intendere quella altrui». Andare a fondo della mia identità è il punto di partenza per incontrare l’identità altrui.
Leggere il poema dantesco con il commento della Professoressa Chiavacci Leonardi è come fare la parafrasi della vita. Altro che retorica. Noi siamo distanti dalla sensibilità simbolica e articolata del Medioevo, ci serve un tramite, cioè qualcuno che ci dischiuda il senso di parole dette secoli fa per l’autenticità che ancora hanno. Questo è il compito dell’insegnante, e di questo è stato esempio la Professoressa.
La cito ancora: «L’eterno e il tempo sono sempre fra di loro avvicinati per cui un gesto terreno dell’uomo ha un valore preziosissimo, basta una lacrima per salvarsi per sempre o per perdersi». Ecco qui con profondità e chiarezza aprirsi un tema chiave per comprendere la vita attraverso la voce di Dante: c’è la presenza dell’uomo dentro il tempo, c’è il suo bisogno di eterno e c’è il valore di ogni suo gesto. Dentro le tumultuose vicende del presente, l’uomo si muove libero in cerca di una stabile permanenza verso il bene e il suo agire non è una goccia indifferente nel mare, ma una scelta dalla portata gigantesca anche nel piccolo. Basta una lacrima, cioè basta anche il minimo gesto – purché libero – per gettare un’ipotesi di bene o di male sul proprio destino eterno. Bellissimo e tremendo. Vertiginoso.
La ringrazio, cara Professoressa, di avermi condotto per mano a capire che mestiere faccio. La ringrazio ancora di più per essere stata un esempio di come maternità e lavoro non sono in competizione e del fatto che la cura dei figli e la dedizione alla famiglia richiedono tempo, un tempo che non è sottratto al lavoro, ma che lo saprà arricchire in termini di sincerità e autenticità quando lo si riprende in mano.
L’inizio della Divina Commedia è proprio un silenzioso e amorevole sguardo materno, la presenza operativa della Madonna, che – pur in apparenza dietro le quinte – richiama alla vita un uomo che si sentiva perso in una selva. L’amore muove; non c’è cosa più vera eppure più fraintendibile. Ma uno dei più grandi meriti di Dante è proprio quello di saper accogliere il “grande mare dell’essere”, la grande varietà umana nei suoi aspetti più banali, mutevoli, eroici e crudeli, per suggerire che dietro tutto questo putiferio c’è una Casa e non un calderone.
In un tale universo, dove ogni minimo gesto di amore è raccolto, e ogni uomo – povero o potente – è ugualmente prezioso e destinato a un glorioso destino, forse i giovani del nostro tragico tempo possono trovare una risposta alla loro domanda di significato. Forse il poeta fiorentino del Duecento può ancora offrire, con la sua alta parola così vicina all’uomo e così immersa nel divino, una indicazione di speranza (Anna Maria Chiavacci Leonardi).
Caro Alessio, per questa volta ti perdono il ” dottoressa” 🙂 Ma d’ora i poi solo Annalisa! Ho trascorso una giornata bellissima con voi a Monselice. Grazie, un caro saluto
Dottoressa Teggi, c’ ero anch’ io quel giorno a Monselice e ho apprezzato moltissimo il suo raffinato ed elegante intervento.
Caro Alessio, per questa volta ti perdono il ” dottoressa” 🙂 Ma d’ora i poi solo Annalisa! Ho trascorso una giornata bellissima con voi a Monselice. Grazie, un caro saluto