L’uomo che fu Giovedì, parte 1: la discesa agl’inferi
«Perché non c’è niente di così piacevole come un incubo,
quando sai che è un incubo. …
Io risponderò alla chiamata del Caos e dell’Antica Notte.
Io cavalcherò l’incubo, ma lui non cavalcherà me».
GKC
Quando ho concluso la traduzione de L’uomo che fu Giovedì di G. K. Chesterton avrei voluto scrivere un’introduzione o postfazione alla nuova edizione che sarebbe uscita; la cosa avrebbe gratificato il mio orgoglio (cose tipo: ho capito questo, e ho capito quest’altro… ) e avrebbe anche soddisfatto la logorrea che sgorga spontaneamente quando si finisce un libro di Chesterton (l’incontenibile voglia di dire un sacco di cose, tipo: e c’è quella battuta che mi ricorda quella volta in cui… ecc ecc, e c’è quella descrizione che è proprio identica a…). Giusto o sbagliato che sia, non ho corredato la mia nuova traduzione con nessuno scritto.
Innanzitutto perché Chesterton, nella sua Autobiografia, si lamentò della sovrabbondanza di interpretazioni date a questa sua storia e sottolineò che, contemporaneamente, si era prestata poca attenzione al sottotitolo, che di per sé doveva essere usato come eloquente chiave di lettura: un incubo.
In secondo luogo, oltre al sottotitolo, un’introduzione vera e propria fu già scritta dall’autore stesso. Mi riferisco alla poesia iniziale, composta da GKC come dedica all’amico E. C. Bentley:
«Questa è la storia di quelle vecchie paure, di inferni trovati vuoti, E solo tu capirai il vero di cui quest’incubi sono intessuti: Incubi di dèi infami, che distruggono la vita e scompaiono in un’ora, Di diavoli che oscurano le stelle, poi cadono con un colpo di pistola».
Il diavolo non è così nero come lo si dipinge, è questa la scommessa/battaglia del romanzo. E, sempre nell’Autobiografia, GKC riprende questo filo conduttore, dichiarando a proposito de L’uomo che fu Giovedì:
«Se mai la storia possiede un senso, intendeva esordire con un ritratto del mondo nella sua peggiore rappresentazione e dimostrare che, invece, il quadro non era poi così nero come sembrava».
Se uno ha in canna il colpo giusto, può disintegrare il velo scuro dell’incubo. Questa è la speranza di questo libro: è una strada ripida nella discesa, e repentina nella risalita, di chi va nel buio a smascherare la menzogna di chi oscura il cielo, e poi esce a riveder le stelle.
Proprio per questo, chiunque legga L’uomo che fu Giovedì, è molto grato all’autore di averlo scritto e può cadere nella tentazione di volerlo ringraziare per iscritto, come faccio io ora. Niente erudizione. È solo una mia riflessione grata e, ahimé, molto prolissa, perché molti «fili elettrici» che mi scorrevano sottopelle si sono scoperti durante la lettura, e il modo in cui Chesterton li ha accesi mi ha scosso.
Crisi
L’adolescenza è una delle tappe più complesse della nostra vita, e per Chesterton fu il periodo in cui fu colpito da una drammatica crisi esistenziale, durante la quale mise sottosopra cielo e terra, tutto e niente, senso e assenza di senso. Ne parlò lui stesso nel capitolo Come diventare pazzo della sua Autobiografia:
«il fatto è che i miei occhi erano rivolti verso l’interno piuttosto che verso l’esterno, conferendo alla mia personalità morale, io credo, uno sgradevole strabismo. Ero ancora gravato dall’incubo di negazioni dell’anima e della materia, dalle morbose rappresentazioni del male, dal fardello del mio corpo e del mio cervello, stranamente misteriosi».
Vale la pena vedere come Chesterton rielabora questa sua condizione biografica in forma di immagine simbolica nel romanzo Uomovivo, di cui è protagonista Innocent Smith. Al tempo in cui frequenta l’università, Innocent segue le lezioni di filosofia del Prof. Eams, fervente divulgatore di teorie nichiliste. Essendo un alunno diligente, Innocent decide di prendere sul serio il professore e di verificare, alla prova dei fatti, se la vita è nulla. La notte in cui Smith decide di andare dal Prof. Eams per ingaggiare con lui una partita all’ultimo sangue (per entrambi), l’autore è molto puntiglioso nel descriverci l’ambiente e l’atmosfera che circonda il giovane studente, la cui anima è sinceramente lacerata dal terrore che la visione cupa del nulla sia l’ultimo orizzonte sul vivere umano:
«Il paesaggio che circonda gli edifici di questo College è pianeggiante, ma non ha un aspetto affatto piano per chi lo osserva dall’interno del College. Perché tra queste piatte paludi si creano sempre degli occasionali laghetti o dei ristagni d’acqua e questo cambia costantemente la prospettiva, mutando quello che dovrebbe essere uno schema orizzontale di linee in uno schema di linee verticali. In tutti i punti in cui quest’acqua crea delle pozze, l’altezza degli edifici si raddoppia, così che una commune casa inglese in mattoni assume l’aspetto di una torre babilonese. Perché su quella superficie luminosa e piatta le case si riflettono perfettamente, producendo un’immagine capovolta ma corrispondente all’originale fino al comignolo più alto e a quello più basso. Il riflesso di ogni nube corallina, visto attraverso quello specchio d’acqua, sprofonda dentro il mondo tanto quanto l’originale s’innanlza nel cielo. […] Sotto i piedi dell’uomo la terra si spacca a metà, creando vertiginose prospettive aeree […]».
Foto di Loic Lagarde
Il tremendo pericolo di un eccesso di riflessione, ecco cosa descrive qui GKC. E lo fa usando la cosa più efficace possibile, un’immagine: la mente dell’uomo è come uno specchio d’acqua, riflette. Riflettere significa vedere due volte la stessa cosa, come accade in una pozzanghera o uno stagno: c’è l’oggetto reale e c’è il suo riflesso identico e capovolto (ma inesistente) nell’acqua; lo stesso accade nella mente umana, che è il luogo in cui l’uomo riflette, cioè ri-vede il reale. E questa capacità riflessiva può diventare vertiginosa («una semplice casa può diventare una torre babilonese»), insomma può tramutarsi in uno sgradevole strabismo, come dichiarato da GKC nell’Autobiografia, se l’immagine (irreale) della mente diventa più reale di quella della realtà. Cioé se l’incubo prevale sulla realtà. Ecco, infatti, cosa accade al giovane Smith che – simbolicamente e pericolosamente – cammina (per affrontare il Prof. Eams) in questo paesaggio pieno di specchi d’acqua che raddoppiano la vista di ogni oggetto:
«Era nel mezzo del suo cammino, in quella notte stellata dalla luce sconcertante, le stelle erano sopra e sotto di lui. E la sua cupa fantasia gli sussurrava che il cielo sotto i suoi piedi era più profondo di quello sopra la sua testa: era ossessionato dall’idea terribile che, se si fosse messo a contare le stelle, ne avrebbe trovata una di troppo nella pozza. […] Per lui, come per quasi tutti i giovani studenti del suo tempo, le stelle erano cose crudeli. Anche se brillavano ogni notte nella grande volta celeste, erano un enorme e tremendo segreto, perché mettevano a nudo la natura, come se mostrassero chiari indizi degli ingranaggi di ferro e delle pulegge che stanno dietro la scena. Perché i giovani cresciuti in quell’epoca triste pensavano che il divino provenisse dalla macchina. Non sapevano che, in realtà, è la macchina a provenire dal divino. In breve, erano tutti dei pessimisti e la luce delle stelle era crudele ai loro occhi … ed era crudele perché li metteva di fronte alla verità. Per loro l’universo era tutto nero con qualche puntino bianco».
Nel mezzo del cammin di sua vita, il giovane Gilbert si trovò a percorrere la stessa strada di Innocent Smith: si trovò a fronteggiare quel dubbio estremo che colpisce la mente quando rivolge «gli occhi più verso l’interno che verso l’esterno», e arriva persino a credere che l’universo riflesso dentro la mente abbia una stella in più di quello reale, cioè sia più vera la riflessione della realtà. Come Dante, Chesterton seguì la via più corraggiosa per uscire dalla selva mortale: quella di scendere agli inferi, quella di vivere l’incubo fino in fondo:
«io mi sentivo un impulso irresistibile a scrivere idee orribili e a disegnare immagini orribili, sguazzandoci dentro in una sorta di cieco suicidio spirituale … vorrei dire che ho scavato talmente in profondità, da incontrare il diavolo e misteriosamente riconoscerlo» (da Autobiografia).
E qui entra sulla scena Gabriel Syme, il poeta-poliziotto filosofico, protagonista de L’uomo che fu Giovedì. Ecco colui che scaverà in profondità tutti i meandri dell’incubo, e ne riemergerà segnato, ma vivo. Alive, un sopravvissuto che … nel tempo… sarà capace di gridare manalive!, cioè: Evviva!.
Ed ecco perché, rispetto a tutte le esegesi critiche che si erano soffermate a indagare la visione religiosa sottesa al Giovedì, Chesterton preferì di gran lunga la testimonianza di chi gli disse che molte persone in difficoltà avevano trovato pace leggendo questo libro:
«Vorrei piuttosto citare l’elogio che mi fu fatto da un uomo di tipo completamente diverso, che, per qualche ragione, fu uno dei pochi a trovare il bandolo della matassa del disgraziatissimo romanzo della mia giovinezza. Era un celebre psicanalista, dei più all’avanguardia e dei più scientifici. … Era uno studioso attento e competente e mi fece rizzare i capelli in testa, quando disse che aveva trovato il mio romanzo giovanile un rimedio utilissimo per i suoi pazienti, soprattutto il lungo processo con cui il diabolico anarchico si rivela un rispettoso cittadino travestito. “Conosco molti che erano vicini alla pazzia” mi disse con tutta serietà, “e che trovarono la pace per aver capito L’uomo che fu Giovedì». Era sicuramente eccessivo, nella sua generosità, anzi forse era lui a essere pazzo. Ma confesso che mi lusinga che in quel periodo di personale follia, io possa essere stato di un piccolo aiuto ad altri pazzi come me».
– Carissimi, questa è la prima delle tre parti in cui ho suddiviso le mie riflessioni. Pubblicherò nei prossimi giorni le altre due parti. Alla fine vi metterò a disposizione un pdf che raccoglie tutto, se a qualcuno può interessare –
grazie fin d’ora per il pdf che renderai disponibile; sento che potrà essere utile a me e a molti altri.
Raimondo