Dalle stalle alle stelle, ovvero: il tuffo e il sacrificio

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Condivido alcune pagine del libro da cui nasce il progetto di questo blog. Sono sempre stata una studentessa diligente, di quelle che non sgarrano … non osano… si attengono alle direttive date; solo da adulta (ma non è troppo tardi!) ho imparato a inoltrarmi su sentieri meno battuti, cioè a scommettere in occasioni di apprendimento fuori dagli schemi.  Spesso la vita vissuta mi ha suggerito che ogni cosa in cui ci imbattiamo può contenere indizi eclatanti per capirci e capire il mondo. Ad esempio, un grande entusiasmo mi ha riempito guardando le gare di tuffi ai mondiali di nuoto a Barcellona. Dapprima non capivo bene perché fossi così ipnotizzata da quelle immagini. Allora ci ho rimuginato, ed ecco cosa è saltato fuori…

«Lo sport non è il mio forte, ma mi piace seguire come spettatrice certe competizioni, non curandomi affatto delle competizioni in sé; infatti, finisco sempre per perdermi in certe pensose derive mistiche. Da questo punto di vista, i mondiali di nuoto a Barcellona nell’estate del 2013 sono stati un evento straordinario e mi riferisco, in particolare, alla disciplina dei tuffi, che ho seguito in diretta televisiva minuto per minuto. Ero preparata allo spettacolo a cui avrei assistito, perché già dieci anni prima le stesse gare si erano svolte nello stesso contesto, la piscina di Montjuïc. Questo impianto sportivo è costruito in cima all’omonimo promontorio, a sud della città: l’effetto suggestivo che ne deriva è una piscina straordinariamente affacciata sull’agglomerato urbano di Barcellona, tanto che, costruendo bene le inquadrature televisive, si crea l’impressione che il trampolino si trovi al di sopra della città, con l’illusione ottica altrettanto clamorosa di vedere gli atleti tuffarsi dentro quel mare di edifici fitti fitti, tra cui svetta la Sagrada Familia.

I fotografi si sono sbizzarriti a immortalare le acrobazie dei tuffatori, che pareva facessero capriole sopra i tetti e accanto alla grande chiesa. Ci sono certi scatti in cui l’inquadratura si concentra sul tuffatore, già proteso a testa in giù, col profilo della Sagrada Familia sullo sfondo. C’è un’indiscutibile spettacolarità in queste immagini, tanto che i commentatori sportivi hanno dovuto fare razzia nel campo semantico del «bello, incantevole, splendido» per descrivere ciò che accadeva sotto i loro occhi. E non c’è niente da fare, di fronte a certi impatti visivi l’occhio capisce prima del cervello; al pensiero occorre, talvolta, più tempo per decifrare ciò che immediatamente la vista avverte come spettacolare.

daley.getIn quelle istantanee in cui il tuffatore è a testa in giù accanto alla Sagrada Familia c’è, innanzitutto, un gigantesco paradosso: l’atleta in primo piano è a capofitto verso il basso, mentre l’opera d’arte sullo sfondo è una costruzione che sale verso l’alto. Sono segni opposti in tutto, che raccontano due movimenti nel tempo e nello spazio diversissimi: il tuffo è istantaneo, la costruzione di una chiesa è epocale; la caduta è veloce e acrobatica, la salita è lenta e faticosa. L’atleta prepara un tuffo, che dura un secondo, in anni di allenamento; il suo corpo diventa un’unica fascia di muscoli e al momento giusto quel corpo si lancia nell’aria e ruota o si avvita, infine si distende. Il tuffo è una lotta creativa contro la forza di gravità, che permette gesti d’armonia e bellezza anche nello spazio di tempo di un respiro.

A questo flash vorticoso e istantaneo fa da contrappunto panoramico il profilo della Sagrada Familia, che racconta una storia diversa: come tutte le grandi cattedrali, essa domina il panorama cittadino; la sua costruzione, cominciata nel 1882, non è stata ancora ultimata, perciò accanto alle guglie affusolate di Antoni Gaudì, simili a gigantesche dita di sabbia protese al cielo, sono ben visibili molte gru all’opera. Nacque per essere un tempio espiatorio, aggettivo che denota il passo lento e umile dell’intero progetto. È il passo di chi s’innalza al sacro del cielo, attraverso gesti di sacrificio terreno, come spiegò Gaudí: «Tutto quello che possiamo fare a favore della chiesa ce lo dobbiamo imporre come un sacrificio, poiché il sacrificio è l’unica cosa che dia frutti». Ed è anche il passo di un intero popolo, non di un uomo solo; tra i sacrifici fecondi, uno fu proprio quello dello stesso Gaudì, che giudicò non solo prevedibile, ma anche opportuno il fatto che non sarebbe stato lui a portare a termine l’edificazione.

Nella parola «sacrificio» il basso e l’alto convivono come in un ossimoro; è una contraddizione costruttiva, in cui la perdita di qualcosa amplifica il guadagno di qualcos’altro. Ogni sacrificio è costituito da un tuffo iniziale, una caduta che implica il lasciare andare una parte di sé, a cui segue una salita edificante ed espiatoria. Un inferno e un purgatorio. Tutte le volte che ritorno a guardare le immagini dei tuffi a Barcellona ora ci vedo questa sintesi prodigiosa: sono la fotografia perfetta del percorso di Dante, la copertina del suo poema» (da Capriole cosmiche, Lindau Editore).

Proprio da questi pensieri è nata l’idea di intitolare il libro Capriole cosmiche: per vedere bene il cosmo, Dante lo mise sottosopra, andò sotto a capofitto nel buio dell’inferno e risalì sopra pian piano attraverso il purgatorio, fino al paradiso.

 

Un commento

  1. Rileggendo mi sono reso conto che è possibile legare alle immagini in questione anche un’altra riflessione. Le chiese, tutte, più o meno belle che siano, sono navi rovesciate che navigano nel cielo e perciò si parla di “navata”.

    Grazie

    Raimondo

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