
(questo mio piccolo contributo è stato scritto per il giornale dell’Imola Rugby, dove giocano i miei figli)
Quanti paradenti ha smaciullato mio figlio? Troppi. Quanti caschetti ha perso in giro per i concentramenti? Meno, per fortuna. E poi, un bel giorno … senza preavviso … me lo vedo uscire bel bello dallo spogliatoio alla fine di un torneo: impeccabile con la sua tuta ufficiale, i capelli asciutti asciutti, la maglietta infilata nel verso giusto e il borsone chiuso. Tutto a posto. Non è un miracolo, ma è educazione. Io e mio marito quest’anno gli abbiamo dato fiducia (e abbiamo dato fiducia agli allenatori) e stiamo sempre fuori dallo spogliatoio; lui fa tutto da solo, a modo suo, ma è giusto così. C’è un suo spazio di crescita che passa anche attraverso le cadute, e non solo sul campo ma anche oltre la porta delle docce.
Ci mette sei ore a cambiarsi, lavarsi e asciugarsi? Pazienza. Dobbiamo tornare indietro perché si è dimenticato mille cose fuori dal borsone? Pazienza. Arriva poi un giorno in cui te lo vedi di fronte bel bello e tutto preciso; ed è qualcosa che ha fatto lui come protagonista, e noi genitori come comparse a lato.
D’accordo, ho cominciato a raccontare la storia dalla fine. Ora riavvolgo il nastro.
Il 9 novembre è stata una splendida domenica di sole, i campi dell’ Imola Rugby hanno quindi accolto al meglio le squadre e gli amici delle altre città, giunti per il concentramento. A metà mattina si stava bene anche senza giacca o cappotto. A metà mattina c’era già chi si gustava una bella piada con salsiccia e per non farmi tentare troppo da quest’ottima idea, ho pensato di fare un giretto esplorativo … ehm … educativo. Molto abbiamo da imparare anche noi genitori dalla cultura del rugby; io mi ci sono avvicinata da poco e non faccio la maestrina. Faccio l’alunna, a dire il vero, e comincio a girare per i campi dove giocano gli under 6, gli under 8 e gli under 10.
Prossimamente mi azzarderò anche a dare numeri più alti, per ora bazzico tra i più giovani. Under 6: vedo Carlo assiepato, placcato, abbracciato da una truppa di frugoletti scalpitanti che cercano di rubargli l’ovale; lui sorride e fa loro delle finte. Seguirei l’azione anche da più vicino, ma sento una voce tonante che giunge dal campo degli under 10; è un allenatore di chissà quale squadra e incita uno dei suoi ragazzi: «Eccchissenefregaaaa? Stai giocando a rugby!!». A questo punto, parte il toto scommesse. Quale affermazione avrà generato una replica così poco fraintendibile? Ai lettori l’ardua sentenza. A me sono venute in mente tre ipotesi: 1) «Sono caduto…»; 2) «Ho il fango anche nei piedi!»; 3) «Però non è giusto, l’arbitro non ha fischiato …».
Dopo questa rinvigorente e stentorea rinfrescata, mi sono avvicinata all’area di gioco degli under 8 dove i nostri giovanotti imolesi sono accompagnati dai suggerimenti di Leo, che esorta, stimola e corregge. Mi appunto una delle sue dritte, espressa con una chiarezza gentile: «Simo, se ti allarghi e chiami il passaggio, è più bello». Eh sì, ha proprio detto ‘bello’ e non ‘giusto’. Ha proposto al suo atleta un’iniziativa che lo coinvolgesse in una mossa bella per il gioco di tutti, non lo ha corretto con la pura logica ‘fai così/non far così’. Forse anche a casa posso riciclare quest’intuizione, perché è vero che i bambini e i ragazzi sono molto più partecipi e reattivi se li si coinvolge in una proposta attraente per loro. Se, invece, ti metti a dire: «È giusto che tu mi aiuti ad apparecchiare!» … ecco, non funziona.
Mi sposto sul campo di gioco degli under 10 ed è qui che ricevo la mia lezione della giornata, ma prima mi appunto il suggerimento di Giova ai suoi ragazzi: «Dritti, senza paura!». Vale per loro, ma vale anche per me. L’onestà di uno scontro leale a volte fa paura. Si usano giri di parole, traiettorie sghembe, percorsi alternativi pur di schivare un confronto difficile (sul lavoro, tra amici). Ma non paga. Si allunga la strada, e ci si smarrisce nel nulla. C’è un modo di andare dritti al punto, al succo delle questioni, che è diretto, onesto e non per forza aggressivamente sleale. Questo paga, perché sebbene ci butti lì a sudare con un nostro avversario, ci porta a conquistare qualcosa grazie a un confronto, e non in solitaria. A volte il placcaggio a testa bassa con chi abbiamo di fronte è più utile di una egocentrica corsetta a testa alta.

Ma ecco che, mentre mi perdo in questi pensieri, mi si porge alla vista una scena molto bella. Gli esperti del gioco diranno che è una cosa normale, un’azione di routine, ma per me che sono ignorante e nuova di questo sport è qualcosa da ricordare. Ne è protagonista un under 10 che chiamerò Pinco. Pinco è un tipo slanciato, corre forte, e si trova libero sull’ala sinistra del campo. Il suo compagno, che sta portando palla, lo vede e gliela passa. Un passaggio perfetto che arriverebbe a Pinco proprio in mano, senza doversi muovere di un millimetro, eppure Pinco ha altri progetti. In una frazione di secondo ha visto arrivare di fronte a sé un avversario, pronto a buttarlo giù; evidentemente ha anche visto, con la coda dell’occhio, un compagno libero proprio dietro di sé. E così opta per la scelta generosa. La palla gli arriverebbe tra le mani, ma Pinco fa un passo avanti; la palla gli scivola rasente la schiena, cade dietro di lui con due ribalzi a terra e il compagno libero la prende. Nel frattempo Pinco è pronto e saldo per intralciare la traiettoria dell’avversario che gli corre contro. Lo ferma, e dietro chi ha la palla in mano procede libero sulla fascia.
Per la prima volta seguendo una partita di bimbi, mi sono accorta di un gesto così bello, sensato, costruttivo. Magari è normale per i giocatori esperti, magari non c’è niente di emotivo, ma solo la corretta esecuzione di qualcosa che è stato insegnato durante gli allenamenti. Eppure a me che guardo solo con gli occhi, senza conoscenze tecnico-tattiche, colpisce. Mi porto a casa quella scena e spero di tenermela a mente. Mi capita di lavorare in team, e non è che mi viene sempre così spontaneo di cedere il passo. Non è sempre così immediato pensare le cose in questi termini: «Ok, allora io ‘placco’ questo problema, così lui – il collega – finisce il lavoro in scioltezza». Non è spontaneo? Pazienza. C’è tempo, ci sono tanti tornei, allenamenti e concentramenti per imparare.