Oggi mia nonna Lucia avrebbe compiuto 101 anni; è scomparsa due anni fa, ma la sua “imperante” presenza si sente ancora. In casa nostra, chissà come, noi donne siamo tutte Arieti (mi riferisco al segno zodiacale). Lei era la più ariete di tutti. Due anni fa dedicai a lei il Te Deum, che la rivista in cui scrivo propone a fine anno. Lo ripropongo qui oggi.
PER LE MANI DI MIA NONNA
Stavo già tra le sue braccia, a correre, poche ore dopo la mia nascita. Ero diventata tutta blu in viso perché stavo soffocando, come talvolta capita ai neonati, e mia nonna mi prese, mi immagino senza troppa delicatezza, dalle mani ancora incerte di mia madre e mi portò dai medici di corsa tra i corridoi del reparto. Respirai bene di nuovo di lì a poco e da che l’ho conosciuta è sempre stato così: lei ad affrettarsi in tutto, e tutta la nostra famiglia dietro a seguirla.
Mani e occhi svelti, classe 1914. Due guerre viste e attraversate, la seconda soprattutto: di questioni politiche e militari sapeva poco o nulla se non che suo marito era partito per la campagna d’Albania appena si erano sposati; quanto a lei, i tedeschi in casa sua non ci avrebbero messo piede. Così diceva e così fu. Negli anni che vennero dopo fu tra quelli che ricostruirono l’Italia, a forza di altra fatica e sacrifici; lei che fin dai sei anni era stata abituata a portare al pascolo le mucche prima di andare a scuola. Contadina e donna di casa, premurosa e solerte; era avvezza a lavorare bene e svelta. Svelta sempre, quando stendeva la sfoglia per le tagliatelle e quando dava le carte a briscola, quando scaricava le casse di frutta e quando piegava il bucato. Nel pensare a questo anno che è trascorso, il mio ricordo va a lei e più in particolare ai dieci giorni in cui le sono stata accanto in ospedale quando qualche mese fa è morta. Quella morte che spesso sopraggiunge improvvisa, non voluta, persino crudelmente anzitempo a lei ha mostrato il suo volto forse meno consueto. La fatica della morte che s’annuncia eppure non viene.
Il suo corpo ne aveva già viste di tutti i colori negli ultimi anni; ricoverandola in quest’ultima circostanza, i medici avevano parlato di un quadro clinico inesorabilmente compromesso, si aspettavano che resistesse per uno o due giorni o forse solo per qualche ora. Ma a lei che lo ha santificato nella fatica del lavoro domestico quotidiano, il Signore ha chiesto una non meno impegnativa fatica anche nel momento della morte. Il corpo cedeva su tutti i fronti, eppure la vita non la lasciava. L’ho accompagnata in quei dieci giorni di agonia come un soldato codardo che guarda tremando chi sta in prima linea. Imploravo che il tempo della sua sofferenza fosse breve, tenendole la mano e le sue mani da grande lavoratrice conservavano la loro presa forte. A me pareva solo un tempo di protratta disperazione, ma in lei non vedevo questo; la vedevo anche in questo caso estremo nel modo in cui sempre l’ho conosciuta: alle prese con quel che c’era da fare – fosse anche solo respirare, con l’umiltà testarda che non conosce né timidezza né tiepidezza di modi.
Il nome, si dice, è segno di ciò che ciascuno è, e lei era Lucia; ha tenuto la luce accesa nella sua casa infaticabilmente fino in fondo, perché non c’è un tempo in cui la vita è meno vita, finché la vita c’è. È stata operosa fino alla fine. Paradossale, perché era fine luglio: il tempo di vacanza per eccellenza. E il tempo delle ferie di solito vola, mentre in quella stanza d’ospedale ogni minuto aveva un grande peso. Da mia nonna la parola vacanza non ricordo di averla mai sentita pronunciare riferendola a sé; qualcosa da fare ce l’aveva sempre, fosse anche solo un orlo scucito da rammendare. Mai con le mani in mano ed è morta nel giorno in cui la Chiesa venera Santa Marta di Betania. E chi meglio di Marta poteva tenderle la mano per mostrarle il Solo per cui vale la pena affaccendarsi.
Ripensando a questo, intuisco che c’è un’operosità che è santa anche quando eccede per solerzia, se è accesa di viva dedizione per ciò di cui ci si prende cura. Non è sollecitata dal solo egoismo o da pure mire di guadagno; è l’intraprendenza genuina del contadino che vede nel frutto della terra non solo un profitto annuale o stagionale, ma una promessa che rimane e si rinnova. È quella speranza di cui parlano le parole che recitiamo durante la liturgia eucaristica: «Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo; dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane, frutto della terra e del lavoro dell’uomo; lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna». La tua opera, Signore, passa di mano in mano; dalla tua mano alle nostre mani e di nuovo a te, perché il frutto buono della nostra fatica sia il segno che ti porgiamo come attesa di quella vita eterna che solo nelle tue mani si compie.
Se penso a me, mi vedo sempre indaffarata, ma non al modo in cui Marta era indaffarata sapendo di ospitare il Salvatore. Di solito si associa al tempo della fatica l’idea del sabato, lo sforzo a testa bassa in attesa del premio che è la domenica. Ma è vero, invece, che il tempo in cui noi viviamo ospita già la promessa che è entrata nel mondo la Domenica della Resurrezione. Noi siamo quelli che abitano il lunedì, tempo di costruzione e impegno, ma segnato dall’annuncio della Salvezza che c’è. Questo dà alla fatica la dignità coraggiosa dello zelo, nella sua accezione migliore. Ed è lunedì ogni tempo, quello della infervorata gioventù, quello della accesa maturità, quello della stanchezza serale, quello della sonnolenza mattutina. Anche gli ultimi momenti, brevi o lunghi, di ciò che sembra solo l’anticamera della fine. Ringrazio del tempo tutto di cui è fatto il qui della mia vita, ripetendo la preghiera contenuta nella poesia Augurio di Mario Luzi:
O miei giovani e forti,
miei vecchi un po’ svaniti,
dico, prego: sia grazia essere qui,
grazia anche l’implorare a mani giunte,
stare a labbra serrate, ad occhi bassi
come chi aspetta la sentenza.
Sia grazia essere qui,
nel giusto della vita,
nell’opera del mondo. Sia così.
Per caso, o forse per il Disegno di Colui che guida i miei passi, sono entrata in questo blog che d’ora in poi non dimenticherò di visitare. Cercavo un disegno (!) di Segantini ed eccomi qui a leggere di nonna Lucia. Io mi chiamo Lucia e sono nonna di due bellissimi e straordinari monelli e di una affascinante 15enne che ho tenuto tra le braccia quando ancora gridava al mondo la gioia di vivere. Oggi però mi sto allontanando da pensieri tristi: la mia mamma (95enne) è in ospedale e….la vita scorrerà o…O.
Grazie: la poesia di Luzi se non ti spiace la rubo…(Se non vuoi scrivimi e io la cancellerò) Grazie ancora!