Ho visto un film, e mi è piaciuto. Ecco l’unico motivo di questa recensione/riflessione. È un film del 2010. Ecco che emerge fin da subito che non sono una cinefila, tanto meno una cinefila puntuale e sul pezzo.
S’intitola I baci mai dati, regia di Roberta Torre (nota principalmente per il film Tano da morire). Scopro che la critica italiana gli ha riservato un’accoglienza tiepida, non me ne stupisco. Scopro che Robert Redford l’ha voluto al Sundance Festival, ci ha visto giusto. Scopro che ha vinto il premio Brian a Venezia, ma con una motivazione – a mio avviso – sballata (cioè 1: meglio non l’avessero premiato e però avessero capito ciò di cui realmente parla; cioè 2: pur di negare un contenuto che parla della bellezza di un miracolo ci si inventa di premiare una fantomatica derisione dei Vangeli).
Una storia come si deve, ecco quel che ho visto io. Con un finale come si deve, sorprendente e buono.
La protagonista è una giovane quattordicenne di nome Manuela che vive nel quartiere di Librino, periferia di Catania. La sua famiglia è allo sbando: padre assente che litiga con una moglie decisamente stupida e decisamente zoccola, una sorella altrettanto «facile» e già a suo agio nel mondo della droga. Tra questi alti e miseri casermoni di cemento c’è una piazza con una grande statua della Madonna, a cui una notte viene rotta la testa e portata via. A questo punto, la maggior parte delle recensioni dice: «Manuela si inventa di saper far miracoli e di aver parlato con la Madonna, che le avrebbe detto dove sta la testa della statua». Falso. La regia ci mostra un sonno/sogno turbato di Manuela in cui lei assiste al furto della testa della Madonna. L’indomani lei semplicemente racconta alla famiglia quel che ha sognato e la madre decide di portarla dal parroco: verificando il contenuto di quel sogno, la testa della statua della Madonna viene effettivamente ritrovata.
Manuela non dice nulla, Manuela non vuole nulla. Ma chi le sta accanto, a quel punto, fa tutto al posto suo: lei diventa una veggente, capace di far miracoli. La madre trasforma la casa in un ufficio per ricevere «clienti bisognosi di miracoli», il parroco si limita a far vestire la ragazza in modo castigato quando riceve questi clienti. Intanto nessuno bada a Manuela, che se ne sta zitta per tutto il giorno – tra santini di se stessa e candele – ad ascoltare gente che la implora di vincere al totocalcio, di entrare al Grande Fratello, di far smettere il marito di giocare d’azzardo, ecc. . Intanto la madre intasca i soldi delle offerte spontanee di questi religiosi creduloni, e diventa l’amante di un onorevole venuto a vedere lo strano caso della ragazza miracolosa. Intanto il padre di Manuela non si vede più. Intanto la sorella di Manuela va avanti a drogarsi. E una famiglia va in frantumi.
Il vescovo, andato in visita alla parrocchia di Manuela per accertarsi dei fatti, si raccomanda col prete di mostrare prudenza di fronte a questi eventi strani e cita una frase di Jacques Bousset, la butta lì quasi per dire che tutto è complicato: «Dio scrive dritto sulle righe storte». Ma questo è il senso – tutt’altro che complicato – del film, che si compie in un finale sorprendente. L’unica «cliente» a cui Manuela parla nel corso della sua pseudo-attività da veggente è una ragazza cieca, andata lì solo perché costretta dalla madre. Lei non si aspetta nulla, Manuela le dice che non sa far nulla e allora diventano amiche.
Poi la gente, come una banderuola al vento, fa in fretta a passare dalla devozione all’invidia. Nessun miracolo accade. Una parrucchiera-fattucchiera, che ha perso clienti a causa di questa storia, mette una pulce nelle orecchie delle popolane credulone: «Ma vuoi davvero che la Madonna parli alla figlia di una mignotta?». E la gente smette di andare da Manuela, e torna a farsi fare i tarocchi.
E bum! … quando tutto è andato a catafascio, quando tutto sta per tornare nella semplice e triste normalità, un miracolo legato a Manuela accade davvero. E sul silenzio commosso, attonito e inerte di tutti, ecco i titoli di coda.
Ora, i beneamati critici del premio Brian negano che il film parli di un miracolo vero e proprio. Ma tant’è. La trama parla e mette in scena un miracolo che, nel finale, avvolge tutti nell’abbraccio di un mistero buono. Non so bene cosa ci sia nei miracoli che infastidisce tanto i suddetti critici, ma vorrei far notare loro che c’è un altro miracolo ancora più eclatante nel film, e nient’affatto soprannaturale. Nella scena prima del vero miracolo finale, c’è una madre – che per gran parte del film è stata egoista, mignotta, vanitosa – che si prende la briga di inseguire una figlia in fuga per poterla abbracciare per la prima volta in vita sua. Una madre che diventa madre dopo una vita di cazzate. E bacia la figlia e le promette di prepararle il pranzo più buono che esista. Vogliamo parlare di questo miracolo? … parliamone. È qualcosa che non si vede, che passa in sordina, perché un attimo dopo deflagra la luce del miracolo vero e proprio.
«Perché vedendo non vedano» – dice Gesù nel Vangelo, a proposito delle sue parabole. E se fosse vero anche per i suoi miracoli? Cioè: se ci fosse qualcosa di clamoroso e non visto anche dietro i miracoli che fece? E se il clamore dei suoi miracoli fosse servito anche per cambiare qualcosa dietro le quinte di quelle scene, in cui i muti parlano e i ciechi recuperano la vista? Insomma, noi ci fermiamo al dato eclatante: un giorno il Signore salvò un indemoniato, un altro giorno ridiede la vista a un cieco, un altro ancora resuscitò Lazzaro. E fermiamo lo sguardo sull’indemoniato, sul cieco e su Lazzaro, concentriamo la vista su di loro a cui è accaduto un miracolo. Ed è giusto. Ma se, oltre al prodigio in primo piano, visibile a tutti, ci fosse un mosaico di miracoli ben più portentosi, piccoli e invisibili attorno? Chissà se tra la folla di gente, che assistette a quei miracoli, ci furono un uomini sconosciuti che cambiarono vita da quel giorno, magari un giovane ladro che smise di rubare, o un’anima disperata che smise di pensare al suicidio. Non so, ma non mi stupirebbe scoprire che il Cielo ha messo a soqquadro un’intera città, pur di scovare e abbracciare un piccolo cuore nascosto tra la folla. Non mi stupirebbe, insomma, sapere che Gesù guarì l’indemoniato non solo per salvare la sua anima, ma anche per «colpire» qualcuno nella folla che, magari inconsapevolmente, era lì e aveva bisogno di risposte per la propria vita. Chissà, può essere.
Questo mi ha fatto pensare ai miracoli evangelici con un occhio diverso. «Ma vuoi davvero che la Madonna parli alla figlia di una mignotta?». Sì, può essere. E guarda un po’ che casino combina la gente da un fatto del genere. Lo tramuta in superstizione, lo svilisce a mercato. Eppure non è questo che mi stupisce; mi meraviglia piuttosto che la Madonna possa aver generato tutto questo putiferio per fare il miracolo invisibile di ridestare in una donna il suo compito di madre.
«Dio scrive dritto tra le righe storte», ecco. Comunque si interpreti questa frase, ne salta fuori qualcosa di interessante. Dio va dritto al punto, nonostante tutto. Dio scrive dritto, usando persone storte. Dio scrive dritto, nonostante le persone che si sentono allineate a Lui distorcano il suo messaggio. Soprattutto Dio non teme di scovare un cuore sincero anche a costo di tirar fuori chili e chili di mercificazione e superstizione.
Nonostante tutto, il Cielo crede nel cuore buono dell’uomo e sa la strada giusta per arrivarci. Dio sa che siamo storti, non gli importa. Lui arriva dritto. E come arrivare al cuore inaridito di una madre, che non fa più la madre? Magari rimettendo al centro della scena quella sua figlia 14enne trascurata da tutti, a cui improvvisamente la vera Madre, la Madonna, parla.
C’è poi un dettaglio prezioso, che non ho visto citato in nessuna recensione. La ragazza protagonista si chiama Manuela (che, come Emanuele, significa «Dio con noi»). Sua madre le ha dato un nome pieno della speranza di una compagnia, un nome che vince la solitudine, eppure nella loro vita non c’è altro che rancore reciproco e isolamento reciproco. Curioso, no? E allora occorre un gran putiferio e pure un miracolo, perché lei capisca che nome hanno le cose e le persone che ha tra le mani.
I baci mai dati, appunto. Quelli di cui Manuela riempie i suoi disegni, ma che non ha mai avuto da mamma e papà. Quelli di cui la mamma la riempie, dopo aver temuto di perderla per sempre.