In tanti hanno sognato di poter viaggiare nel tempo, a me è capitato davvero. Ora ve lo racconto.
Si è trattato di un semplice viaggio da Bologna a Milano e forse, se non fossi stata molto agitata, non mi sarei accorta di nulla. Avrei ignorato di essere salita sulla macchina del tempo. Invece, quando sono molto agitata, faccio un esercizio per tranquillizzarmi: mi costringo a non pensare e, per riuscirci, mi costringo a guardare quello che ho attorno, descrivendolo coscientemente nella mia testa. Ecco, questo giochetto mi ha fatto fare il mio viaggio nel tempo.
Lo scorso 4 giugno è stato uno di quei giorni in cui ero molto agitata, a causa di un importante impegno di lavoro che mi attendeva a Milano. Qualcosa di più importante, però, mi è passato letteralmente sotto gli occhi.
C’era una volta …
Parto da casa di buon mattino e comincio il mio esercizio per non essere preda dell’ansia. Sono in auto e la prima cosa da guardare in cui mi imbatto è un anziano che attraversa la strada, ad un incrocio a cui mi fermo perché c’è il semaforo rosso. Il signore in questione è claudicante e ci mette un’infinità di tempo e fatica per attraversare la carreggiata, pare una diabolica corsa contro il tempo: lui osserva la luce del semaforo temendo di non riuscire ad essere dall’altra parte quando scatterà il verde per noi automobilisti. Sono circa le 9 di mattina, ma è già caldo; si prospetta una giornata terribilmente afosa. Sotto il pieno sole l’anziano procede ad attraversare la strada, un piede è ok e fa un passo normale, l’altro è una zavorra e lo rallenta incredibilmente. Ha uno sguardo severo, quasi burbero, e sta con la schiena dritta, nulla tradisce la sua fatica se non gli occhi stretti con cui fissa il semaforo. Di fronte a lui ci siamo noi, piloti fermi ma col piede scalpitante sul gas. Ecco, riesce a fare l’ultimo passo ed è sul marciapiede; dignitoso e composto, l’anziano si ferma giunto al traguardo e, solo allora, scatta il verde per noi. Perfetto.
Stazione di Bologna centrale. Il mio Frecciarossa Bologna-Milano è in ritardo di mezz’ora per un guasto sulla linea all’altezza di Firenze. Il mio autocontrollo vacilla, comincio a pensare di non arrivare in tempo per il mio impegno. Poi il treno arriva e tutto procede bene, perché il ritardo resta in effetti di soli 30 minuti; ma quel piccolo imprevisto sulla tabella di marcia è bastato a scombussolarmi e sento l’ansia salire di nuovo. Riprendo il mio esercizio e mi guardo attorno. C’è una giovane ragazza nella fila dietro di me, la vedo riflessa nella porta a vetro che ho di fronte; posso quindi guardarla senza essere vista. Avrà circa 18 anni e porta il velo, che avvolgendola fa risaltare meglio l’aspetto del suo volto. È bella, ha i colori scuri e marcati del Medioriente: grandi occhi, sopracciglia folte, labbra carnose dal profilo perfetto.
Estrae dalla borsa un astuccio superfornito di trucchi e comincia a sistemarsi con una cura diligentissima. Depone lo specchio sul tavolino e passa ad estrarre il fondotinta, ne ha uno in polvere (il top quando c’è caldo e si suda); poi è il momento degli ombretti e del eyeliner, si disegna il contorno occhi in modo molto marcato, che intensifica il nero delle sue pupille. Infine, il rossetto: lo stende e se lo sistema, poi resta a fissarsi allo specchio come un detective in cerca di impronte digitali. Quando è sicura che tutta la sua opera sia perfetta, depone l’astuccio nella borsa. Nel frattempo, io ho pensato molte cose: ad esempio, che debba incontrare il fidanzato a Milano e si sia preparata per essere bellissima quando lui la vedrà; o anche che si sia truccata in treno perché i suoi genitori non le avrebbero consentito di essere così vistosa. A tutte queste mie ipotesi, risponde il suo gesto successivo. Estrae dalla borsa un Iphone rosa e si prepara … per un selfie. Scatta varie foto, con diverse angolature; sorride. Tutto qua.
Arrivo a Milano e fa caldissimo. Mi chiedo come si possa essere presentabili quando è estate, e i vestiti si appiccicano al corpo e si gronda di sudore. Spero che il fondotinta in polvere faccia il suo dovere. Maledico – solo per un attimo – i capelli lunghi. Raggiungere la metro è come una maratona dentro un forno a 200°. L’ansia mi attanaglia di nuovo, penso che sono stanchissima e prostrata ancor prima di cominciare. Ipotizzo che tutto andrà male, perché non ho ripassato i punti del discorso che devo fare. Non ho tempo per pranzare, per colpa del ritardo del treno. Per fortuna quando salgo sulla metro c’è l’aria condizionata. E tutto torna a posto.
Insieme a me sale anche una mamma cinese con un passeggino. È bravissima a gestirlo senza sbattere contro gli altri e senza che il bambino a bordo senta degli scossoni. Penso a me, e alla mia incapacità cronica nella faccende pratiche. Per fortuna vivo in una cittadina piccola, senza metropolitana, e coi passeggini mi sono dovuta destreggiare solo nei saliscendi dei marciapiedi. Ma ecco, dunque, di fronte a me questa mamma con il suo bimbo: reclina indietro il passeggino, si vede che il fanciullo è stanco. Anche lui ha patito l’afa come noi e ha i capelli sulla fronte tutti bagnati. La mamma gli strofina un orecchio, e lui istantaneamente si addormenta. Cina o Italia non fa differenza in questi casi, anche mio figlio minore s’addormenta così. Tutto il mondo è paese. Ma qualche fermata dopo il sonno del piccolo si fa più agitato e allora la mamma tira fuori il biberon del latte; lui si mette a ciucciarlo da addormentato e tutto ritorna placido. Un sonno perfetto e totale, in mezzo alla gente che chiacchiera, mentre la vettura traballando procede. Magnifico.
Arrivo a Lotto, scendo e mi avvio al lavoro.
Lo ammetto, neanche a me questo sembra – a prima vista – un viaggio nel tempo; né me ne sono accorta mentre lo vivevo. Un viaggio nel tempo dovrebbe essere stile Ritorno al futuro, con uno scienziato pazzo ed effetti speciali. Invece no. Il mio viaggio è stato diverso. Ci ho ripensato la sera, al ritorno, quando la stanchezza e la rilassatezza post-stress non mi concedevano pensieri complessi. Solo durante il viaggio di ritorno, ho unito i tasselli del disegno di cui ero stata spettatrice. Ho ripensato alla mia giornata, ed ecco di cosa mi sono accorta.
Ero partita e avevo incontrato un vecchio; avevo proseguito incontrando una ragazza; quasi all’arrivo mi ero imbattuta in un bambino. Il tempo della mia giornata era andato in avanti, facendomi però incontrare il tempo della vita a rovescio, dalla vecchiaia all’infanzia.
E ho pensato al film Il curioso caso di Beniamin Button in cui il protagonista nasce vecchio, cresce ringiovanendo e infine muore neonato. Il racconto di Scott Fitzgerald, da cui il film è tratto, è molto diverso e più sintetico dei contenuti che vengono sviluppati nella versione cinematografica, per questo faccio riferimento al film. Mi ha sempre colpito questa storia, non solo perché è strana, ma proprio perché è paradossale. Il libro che io stessa ho scritto è impostato sull’idea di una giornata storta, cioè di un giorno che comincia con la sera, prosegue col pomeriggio e finisce col mattino. L’ho fatto per rovesciare la prospettiva sulle cose, come m’insegna il mio maestro Chesterton; l’ho fatto, quindi, per osservare la vita in modo rovesciato e stupirmene una volta di più. L’ho fatto, infine, con la vaga idea che la fine della nostra vita dovrebbe essere un mattino, cioè un nuovo inizio.
Ma solo vivendo una vera giornata storta, in cui ho incontrato a rovescio le tappe della vita, mi sono resa conto di una formidabile ipotesi. Ed è forse pure il senso del curioso caso di Benjamin Button. E se il senso della vita fosse quello di tornare bambini, di arrivare a essere come neonati quando moriremo (pronti – quindi – per il vero inizio dell’eternità)? Qualcuno lo disse già, lo so (“Se non ritornerete come bambini, non entrerete mai”), ma non avevo mai pensato che potesse essere applicato in senso letterale.
Noi interpretiamo la vita come avanzamento e crescita, perché il tempo procede in avanti facendo crescere il nostro corpo e il bagaglio delle nostre esperienze. Ma se, contemporaneamente e rispetto a un altro punto di riferimento, il tempo della nostra vita fosse un allontanamento e una decrescita? Se il massimo possibile del compimento fosse la nostra origine? Esiste qualcosa di più compiuto di un feto dentro il grembo materno? Noi non ne abbiamo memoria, ma credo che in quei nove mesi nella pancia della mamma s’imprima in noi la cosa più simile e vicina possibile al Paradiso. E da quando nasciamo in poi, ci allontaniamo da quella condizione e ci aspetta una grande prova, quella di vivere nell’imperfezione.
Il massimo dell’umanità fu la sua origine nel Giardino dell’Eden, e da allora in poi tutto fu un allontanamento da quella perfezione. In realtà, tutto -dopo l’Eden- fu un viaggio per ritornare all’Eden. E forse anche la nostra vita ripercorre questa direzione di marcia, nascendo e crescendo via via ci allontaniamo dalla nostra origine; ci distraiamo incontrando via via per strada altre cose. Abbiamo ancora dentro il desiderio di un bene grande (è come un’eco che pulsa nel nostro cuore), ma non sempre lo mettiamo a fuoco. A volte confondiamo il traguardo, e ci soffermiamo in punti d’arrivo molto meno ambiziosi e soddisfacenti. In gioventù abbiamo uno slancio grandissimo, eppure talvolta lo riversiamo in una vanità confusa. C’innamoriamo del nostro volto, come la ragazza sul treno. E non è sbagliato, perché è il nostro vero volto quello che cerchiamo lungo l’intero viaggio del vivere … tuttavia, non è uno specchio che ci darà le risposte. Tante volte finiamo per accontentarci di cose concrete, che poi passano.
Poi passa anche il nostro vigore fisico e la forza giovanile cede alla lentezza e insufficienza della vecchiaia. Con due miseri e stanchi piedi ci troviamo a penare per attraversare una strada. Ma se questo è il percorso inevitabile e scritto nel nostro corpo, è lecito alla nostra anima fare a rovescio il percorso? Può l’anima coraggiosamente opporsi a questo allontanamento dall’origine e nuotare controcorrente? Può, mentre il corpo invecchia, cercare di tornare bambina?
Quel bambino addormentato nel passeggino forse non era un essere umano incompiuto e piccolo, forse l’ho visto per ultimo nel percorso del mio viaggio perché essere come lui è un traguardo: quieti e abbandonati nell’abbraccio di una madre, lieti di una carezza, soddisfatti di un sorso di latte. Ecco, dunque, cosa è capitato a Benjamin Button: nel suo corpo si riflette ciò che dovrebbe accadere all’anima; col passare del tempo essa deve ringiovanire e non invecchiare, essa deve fare di tutto per non perdersi lontano e alla deriva … deve ritrovare la strada per tornare all’origine, al punto di partenza, a quel tempo della vita in cui siamo stati il più vicino possibile a ciò che è innocente. Essere una creatura innocente è il nostro traguardo, ed è la cosa più impegnativa e ardita possibile. Perché lungo la strada altre ipotesi fanno capolino: avere successo, diventare qualcuno, soddisfare i desideri più strani, ecc.
Altri traguardi luccicanti, ma non soddisfacenti, si sostituiscono al traguardo dell’innocenza … e tendenzialmente le nostre ambizioni ci portano sempre nella direzione di sentirci un po’ più “padroni delle cose”. Ma è un allontanamento, non una crescita. L’innocenza del bambino è qualcosa di compiuto proprio perché il suo affidarsi completo ai genitori è tutt’uno con la sua gioia, il suo essere creatura umile (cioè, il suo fidarsi dell’abbraccio di qualcun altro) coincide con la sua piena felicità e anche con una certa dose di spavalda esuberanza.
Il mio viaggio nel tempo si ferma qui, all’ipotesi che per un attimo è balenata nella mia testa e cioè che tutta la vita non sia nient’altro che una prova, in cui dobbiamo nuotare controcorrente. Più il tempo ci allontana dall’origine, più noi dobbiamo usare il tempo per recuperare l’anima del bambino, perché in lui l’eco del nostro destino buono si ode ancora forte e chiaro, mentre – col passare degli anni – quella voce tende a essere sempre più fioca. E il fatto che la vecchiaia comporti un sacco di inconvenienti simili a quelli che toccano al neonato – senza denti, incontinente, poco controllato – forse è l’estrema risorsa per ricordarci la strada giusta per entrare in Cielo.
….w il cinesino in metro, ed il signore che attraversa al semaforo!!! BUONA GIORNATA, Chiara!
…da lì a qualche giorno -come un fulmine a ciel sereno-, il primo di un paio di interventi, l’avventura delle chemio, delle radio, dei chili da recuperare e dei capelli ricci, qualche mese dopo, da dover amare…io…che avevo avuto solo spaghetti, in testa!!! E così. ..scoprire la meravigliosa avventura che la Vita è realmente avanzare verso un’infanzia, non solo perché è davvero di tutto che imprevedibilmente si può avere bisogno, ma anche perché sono pochissime le “cose” che ci tengono in vita, e questo i bimbi lo sanno benissimo, come gli anziani! W il cinesino
Cara Chiara,
certo che mi ricordo di te! Ti ringrazio di aver condiviso la tua storia, che vale molto più delle mie “chiacchiere”. Io, infatti, scrivo per condividere intuizioni teoriche, ma quando accade che l’esperienza concretissima e bruciante di qualcuno confermi un’ipotesi … ecco… ne sono profondamente grata.
Mi piacerebbe tanto incontrarti; se ti va, puoi lasciarmi i tuoi contatti alla mia mail capriolecosmiche@gmail.com
Un abbraccio, Annalisa
È la Storia dei miei ultimi dodici mesi, quel tuo viaggio in treno! …. Grazie, Annalisa! Io sono Chiara, e ti avevo scritto proprio l’anno scorso: ti parlavo di un fico, carico di frutti, il cui ramo stanco si appoggiava ad una vite, ricordi?