(Questo articolo è comparso sul numero di settembre della rivista di Università Aperta Imola)
La bellissima miniatura che decora la copertina di questa rivista raffigura un momento davvero intenso e drammatico nel corso del viaggio di Dante nell’aldilà. Si tratta di una scena terribile che, nella sua interezza, si svolge in due canti successivi, l’ottavo e il nono dell’Inferno. Questo indizio formale è già significativo del contenuto: di solito, infatti, Dante è molto attento a svolgere e racchiudere un contenuto all’interno della lunghezza precisa di ogni canto; in questo caso la materia deborda, cioè quasi sfugge di mano al poeta, che non riesce a «chiuderla» dentro una forma precisa. Qualcosa di grande e informe sfugge alla sua ragione. Ed è qualcosa che dilata e cresce la sua paura. Di che si tratta? È l’ombra di terrore di cui si serve il male.
Da questo passaggio la persona di Dante rimarrà segnata, ma poiché il titolo del poema è «commedia» e non «tragedia», anche nell’attraversare questo momento drammatico la speranza non viene meno. Dante e Virgilio compiono un cammino voluto da Dio, eppure giunti in prossimità della Città di Dite, mille diavoli sbarrano loro la strada e non hanno nessuna intenzione di farli passare. Essi deridono e oltraggiano i due viandanti. È la prima volta in cui anche Virgilio sbianca e Dante vede vacillare la sua guida che, solitamente, si mostra sicura e decisa. Siamo di fronte a un passaggio senz’altro cruciale, perché, oltre le mura di Dite, Dante vedrà e toccherà con mano la punizione che spetta a chi ha commesso peccati in cui c’è un pieno uso della volontà; fino a quel momento i dannati incontrati dal Fiorentino avevano commesso delle colpe meno gravi, legate alla pura incontinenza. Oltre quel limite, Dante vedrà il male senza attenuanti di sorta, quello consapevole e violento; accedere a questa zona infernale non può essere indolore, come dichiara Virgilio: «u’ non potemo intrare omai sanz’ira» (IX, 33), ovvero, come spiega il Barbi, in cui non si può entrare senza dolore, rammarico, affanno e tormento.
Come dicevo, i diavoli non hanno intenzione di lasciar passare Virgilio e Dante; nonostante ciò, Virgilio decide coraggiosamente di affrontarli e dobbiamo immaginare che anche lui fosse impaurito da quella vista, eppure si premura di rassicurare Dante: «Non temere; ché ‘l nostro passo / non ci può tòrre alcun; da tal n’è dato» (VIII, 104-105). Il maestro non sa ancora bene come, però è certo che i diavoli non avranno l’ultima parola e, dunque, s’incammina verso di loro, lasciando Dante indietro al sicuro. Ed è per descrivere questo momento di timore e solitudine che Dante ci regala un’espressione che tutt’ora resta tra i nostri modi di dire: «Così sen va, e quivi m’abbandona / lo dolce padre, e io rimagno in forse».
Noi diamo ormai quasi per scontato cosa significa “rimanere in forse”, ma Dante l’ha inventato. Che sensazione è quella di essere in forse? È quel terribile momento di sospensione prima di un disastro probabile. È un’attesa col fiato corto. È incapacità di azione, quando la nostra volontà deve attendere sviluppi che non dipendono da essa. La solitudine e il buio dell’incertezza: ecco qual è il primo velo che stende l’ombra del male.
Poi le cose peggiorano in un modo più spaventoso, perché Virgilio non riesce a convincere i diavoli e torna smarrito indietro da Dante. Di lì non si passa. Ed entrano in scena figure ben più terribili dei diavoli, le Furie. Loro rappresentano le tre forme che il male assume nell’uomo: pensieri malvagi, parole malvage, azioni malvage. Come se ciò non bastasse, arrivano anche le Gorgoni capeggiate dall’orribile Medusa, capace di pietrificare chi osa rivolgerle un solo sguardo: in senso simbolico, lei rappresenta la forma più acuta di paura, quella in grado di annebbiare la mente e oscurare la vista e quella di chi dispera della salvezza.
Sconforto, timore, viltà, sbigottimento sono le emozioni discordanti che attraversano l’animo di Dante. Come si esce da questa situazione in cui le forze del male apparentemente sono padrone della scena? Ecco, la soluzione è sorprendentemente «leggera» e istantanea. Come una brezza di vento, scende un angelo dal cielo e la sua semplice presenza fa istantaneamente scomparire ogni traccia di diavoli e Furie. Ebbene sì, una scena di terrore costruita per quasi due canti si risolve con due versi: il messo celeste «venne a la porta e con una verghetta / l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno» (IX, 89-90).
La poesia di Dante ha la capacità di farci compagnia nel tempo, mostrandosi addirittura più attuale delle nostre idee o ipotesi. È in questi canti che mi rifugio quando le notizie del terrorismo internazionale ci bombardano di tragedie orribili, lasciandomi inerte, dubbiosa e spaventata. Il male si nutre di ombre gigantesche, perché non ha alcuna sostanza buona. Ma sono ombre; è questa la fiducia che ci danno i canti della Commedia appena raccontati. Il bene, invece, è fatto di sostanza e allora è sufficiente un piccolo gesto per disintegrare paure e terrori che paiono insormontabili. I protagonisti di una scena non sono quelli che stanno sul palcoscenico per molto tempo, come i diavoli in questi canti, ma quelli capaci di gesti risolutivi. Una piccola comparsa veloce e istantanea arriva e sistema tutto. È questa la speranza, per noi sulla terra. Al bene basta poco: non gli occorrono atti plateali, chiassosi e stupefacenti; gli occorrono solerti e umili comparse.
E tutti noi siamo comparse in questo mondo, piccole presenze capaci di piccole sostanze di bene; siamo noi, con la nostra volontà impegnata nel ritaglio di terra in cui ci troviamo, l’unico antidoto efficace alle ombre del terrore.