Fare lo scrittore è un mestiere pericoloso: si corre il rischio di prendersi sul serio e, peggio ancora, che gli altri ti prendano sul serio. Non è una battuta. Siamo pieni di serissimi scrittori che pontificano dalle colonne dei quotidiani e si pongono come i detentori della Verità assoluta su persone, eventi, leggi. Stare sul piedistallo è il veleno peggiore per uno scrittore, e per i suoi lettori.
Esiste, infatti, una frontiera tra lo scrittore e la sua scrittura: è una linea di demarcazione netta, invalicabile. La scrittura può ospitare intuizioni vere, riverberi della Verità; lo scrittore, invece, non è mai possessore, né tantomeno creatore di verità. Dante lo sapeva bene e diede una definizione onesta del suo mestiere di poeta: “I’ mi son un che quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando”. Voleva dire che il motore della sua poesia non è mai stato una sua capacità, quanto un ascolto: talvolta – dice lui – spira nell’aria l’eco di qualcosa che ti spalanca il cuore e muove la tua testa verso intuizioni che non avresti avuto da solo; ne sei segnato come da una macchia, e allora cominci a usare la tua voce per parlarne anche ad altri. In questo senso dico che tra scrittura e scrittore esiste una linea netta di demarcazione. Lo scrittore non deve essere scambiato per una divinità.
Dalle ultime indagini risulta che il mercato editoriale trabocca di autori autobiografici, che scrivono memorie personali più o meno apprezzabili. E dicono che questo sia un bene. Ecco, per me questo è un segno inequivocabile dell’aridità egoistica del nostro tempo. Non sappiamo guardare oltre il nostro ombelico. Non vogliamo correre il rischio sano di inoltrarci nella conoscenza dell’altro, nell’impegno di conoscere ciò che c’è oltre il recinto dei propri cortocircuiti mentali. L’autoreferenzialità è la tomba dell’immaginazione.
Se esiste, invece, un genere letterario che è la fontana dell’immaginazione e pone a fondamento della scrittura il mistero (e non la saccenza), direi che è proprio il giallo.
La smetto subito con questa mia predica, perché ogni mia parola sbiadisce di fronte alla meraviglia del testo che sto per proporvi. Altro che corsi di scrittura creativa! … ecco un documento umano equivalente a un blister di vitamine.
La mia amica Maria Grazia mi ha spedito alcune paginette in cui la grande giallista Agatha Christie racconta di sé e del suo lavoro. Non è un documento che interessa solo gli esperti, è come la visita di una vecchia amica che aspetti da tempo. Leggendolo la prima volta, ho pensato che se sapessi guardare la mia vita con questi occhi sinceri e ironici, probabilmente apprezzerei miliardi di piccole cose che quotidianamente mi perdo; e saprei ridere delle mie mancanze.
Nelle righe che ora vi riporto è evidente la sana chiarezza di fondo che lei aveva: quanto più si descrive con allegra umiltà, tutt’altro che patetica, tanto più le sue parole passano dall’autoreferenzialità alla verità. Non c’è dono più grande del mettersi a nudo con ironia, come per dire ai propri lettori: “Guarda, son ben felice se trovi qualcosa di buono in quel che ho fatto; ma stai tranquillo, io sono una come te che si barcamena con gli alti e bassi della vita”.
In ogni caso, potete anche tralasciare tutte le mie sciocchezze letterarie, e godervi semplicemente la piacevolezza della passeggiata in compagnia di questa grande signora:
«Mio padre era americano: sì, è per questo che ho una deplorevole indulgenza per i vizi e le stupidaggini degli americani. Mio padre non faceva niente, la sua attività più faticosa era versarsi da bere. Ciononostante morì giovanissimo, quando io ero bambina. Mia madre, invece, era inglese al cento per cento, e nobile per di più. Non riusciva a capacitarsi che potessero esistere le scuole pubbliche e che la gente di ogni classe sociale potesse mandarvi i figli tutti insieme. So che pianse molto quando mio padre mandò alla scuola pubblica mio fratello e mia sorella maggiori. Ma si oppose disperatamente quando toccò a me: “Questa è la più piccola, almeno questa teniamola a casa, salviamola”. Mio padre cedette subito, un po’ perché non amava le discussioni, un po’ perché aveva mandato a scuola due figli su tre ed era un’ottima percentuale. Così non andai alla scuola pubblica: studiai a casa, sotto la guida di un precettore, come si usava ai vecchi tempi. Ufficialmente, per il ministero dell’Istruzione, sono analfabeta.
Per imparare, tuttavia, ho imparato lo stesso quello che mi occorreva, almeno l’indispensabile. Ma ho avuto un enorme vantaggio: molto tempo libero a disposizione. Non so se mia madre mi avrebbe dato il permesso di giocare con i figli dei vicini di casa: il problema non si pose mai, perché la nostra casa era isolata e perciò non c’erano vicini. A giocare da sola, dopo un po’ mi annoiavo. Così passavo buona parte del mio tempo nella biblioteca di casa, a leggere i romanzi di Jane Austen, delle povere sorelle Brontë, di Dickens, di Conan Doyle.
[…] Confesso che scrivere romanzi polizieschi mi ha sempre divertito, anche se il farlo comporta uno sforzo notevole.
Il primo romanzo poliziesco lo scrissi negli anni della prima guerra mondiale. Cercavo di fare qualcosa, senza sapere bene cosa volessi, un po’ come tutti. In un primo momento tentai di scrivere poesie. Poi scrissi un dramma piuttosto tenebroso, qualcosa a base di incesto, se ben ricordo. Poi un romanzo molto lungo, complesso, morboso: in alcune parti non poi male del tutto. Poi scrissi Poirot a Styles Court. Non avevo letto molti romanzi polizieschi, prima: non ce n’erano molti da leggere. Dopo che il mio libro fu scartato da tutti gli editori, lo comperò Lane, e io mi sentii inondare dalla felicità.
Così continuai a scrivere romanzi polizieschi, non riuscii più a staccarmene. Se avessi saputo che la cosa sarebbe durata tanto a lungo, avrei scelto dei protagonisti più giovani. Dio sa quale dovrebbe essere la loro vera età oggi! E Poirot, temo, col passare del tempo deve sembrare una creatura sempre più irreale. Un investigatore privato, che accetta di fare indagini su casi criminosi, oggi non esiste, e diventa sempre più difficile trovare il pretesto per coinvolgerlo in un’inchiesta. Il problema non si pone con Miss Marple: tipi come lei ce ne sono ancora a migliaia.
La gente pensa sempre che si prenda a modello, nello scrivere i libri, qualcuno che si conosce bene, ma non è il mio caso. Certi personaggi nascono da impressioni causate da persone a cui non si è mai rivolta la parola: qualcuno che si vede a una scampagnata, per esempio, e di cui si immaginano gesta incredibili. Mi preoccupava la necessità di trovare un detective per il mio primo libro, e nei primi anni della guerra c’erano da noi alcuni rifugiati begli: così pensai che sarebbe stata una buona idea prendere un rifugiato belga. Eppure io non conoscevo nessuno del genere. Miss Marple, invece, è molto simile alle zie o alle nonne che abbiamo un po’ tutti.
I miei primi libri erano molto convenzionali. Erano anche troppo complicati, con un mucchio di falsi indizi e di intrighi secondari. Continuavo in ogni momento a tirare in ballo poliziotti stupidi, finché finii col capire che mi era necessario un Watson. Del Watson di Poirot, il capitano Hastings, però, mi stancai presto e lo mandai in esilio in Argentina.
Quando leggo quei primi libri rimango sempre stupita dal numero di domestici che vi compaiono: non c’è mai nessuno che faccia qualcosa, sembra che la sola preoccupazione di tutti sia quella di farsi servire un tè in giardino. Un’epoca per cui si prova una certa nostalgia. Il gusto moderno è profondamente mutato, e si è passati dal romanzo poliziesco al romanzo criminale, quelli che in America si chiamano “gabblers”: una sequenza di episodi violenti che seguono uno all’altro. Questi romanzi mi annoiano.
Di solito, consegno all’editore un nuovo libro entro la fine di marzo. È un ottimo sistema. Si può scrivere durante i tristi mesi invernali e arrivare pieni di energia alla stagione delle gemme. Prima che un libro sia finito, non ne parlo mai: ho scoperto che a parlare di un tema si finisce sempre per trovarlo difettoso. Quando è finito, lo faccio leggere a un paio di persone e sento che cosa ne dicono. Difficilmente riesco a trarre in inganno mia figlia Rosalind: indovina sempre! Rosalind è la ragazza più intelligente che io conosca. Ha un unico difetto, non sa allevare suo figlio Matthew, ma forse è anche colpa mia se lui è un po’ lazzarone: nel ’52, quando aveva 12 anni, gli regalai i diritti di una mia commedia, Trappola per topi, che gli ha fatto guadagnare 150 milioni e gli permette di vivere comodamente di rendita.
Ormai però mi basta un niente a deprimermi: qualsiasi scusa è buona per non scrivere, perché, in certi momenti, mi sembra che scrivere sia come sfornare salsicce: io sono una perfetta macchina sfornasalsicce! Penso sempre che presto dovrei smetterla, poi sono sempre contenta di cominciare a scrivere un altro libro, e, dopo tutto, non è poi così difficile inventare qualcosa di nuovo. Naturalmente, a mano a mano che si diventa vecchi, si cambia punto di vista. Con ogni probabilità, potrei continuare a riscrivere lo stesso libro, e nessuno se ne accorgerebbe: e non è detto che non lo faccia, il giorno in cui mi troverò a corto di idee!
[…] Per ogni nuovo romanzo io trovo l’ispirazione in bagno. È sempre stato così. Fin da ragazza, se volevo concentrarmi, dovevo chiudermi in bagno. Quando ho cominciato a guadagnare, le prime spese sono state per la stanza da bagno: enorme, lussuosa, una sala da soggiorno vera e propria, con poltrone, tavoli, sedie, e una vasca meravigliosa, istoriata, con il bordo di mogano. Adagiata nell’acqua calda profumata dai sali, mangiando mele e bevendo tè, ho sognato decine di delitti perfetti. Ma ci sono altri modi per trovare l’ispirazione: il più semplice è sfogliare il giornale e lavorare di fantasia su un fatto di cronaca. Di solito uno pensa prima alla struttura generale del romanzo, magari sorprendendosi a dire: “Quello sarebbe uno strepitoso colpo di scena, un sotterfugio davvero buono”. Il primo scopo da raggiungere è quello di trarre in inganno il lettore: da lì si procede a ritroso. Io comincio sempre con un’idea abbastanza precisa dell’intero libro, anche se qualche particolare viene aggiunto o cambiato mentre scrivo. Si è sempre un po’ preoccupati dalla prima apparizione dell’assassino. L’assassino non deve mai comparire troppo tardi: questo renderebbe il libro poco interessante per il lettore. E la soluzione deve funzionare perfettamente, giungendo quanto più prossima possibile alla fine della storia. Io ho alcune regole da cui non derogo. Non devo scrivere cose false. Scrivere “La signora Armstrong tornò a casa chiedendosi chi fosse l’assassino”, se l’assassino era poi lei, sarebbe sleale. Ma non è sleale tacere qualcosa. In Dalle nove alle dieci, il narratore scrive: “Me ne andai dieci minuti più tardi, dopo aver fatto tutto quello che dovevo fare”. Qui manca qualcosa, ma non c’è bugia.
Chiunque sia l’assassino, deve essere qualcuno che, a mio giudizio, può essere l’assassino. Un omicida deve avere una personalità su cui i freni inibitori non funzionano. La vanità, ritengo, è una caratteristica molto importante al riguardo. Un assassino non è un tipo dubbioso, non c’è alcun freno in lui, ed egli è ben sicuro di quello che fa. Ma non c’è bisogno che questo particolare sia ovvio: raramente, infatti, si arriva a questo punto, nella vita reale.
[…] Molte ragazze americane mi scrivono lettere di ammirazione. E tutte così affettuose! Ma gli indiani sono ancora peggio. “Ho letto tutti i suoi libri: lei deve essere una donna molto nobile”. Chissà cosa c’è mai nei miei libri che possa far pensare a qualcuno che io sia una donna nobile.
Qualche volta gli ammiratori sono delusi dalle mie fotografie: “Non pensavo che lei fosse così vecchia”, scrive qualcuno. Altri mi fanno delle domande: “Che emozioni prova quando scrive?”. Io scrivo per divertire.
Un africano, una volta, mi scrisse una lettera preoccupante: “Sono entusiasta dei suoi libri e voglio che lei diventi mia madre. Verrò in Inghilterra il mese prossimo …”. Dovetti rispondere subito che stavo partendo per un lungo viaggio all’estero …
I critici sono brava gente, di solito credono in ciò che dicono. Forse hanno ragione a non prendermi troppo sul serio. Neppure io mi prendo in seria considerazione, so che i miei libri sono cosa di poca importanza. Ho solo cercato di intrattenere, di divertire la gente, non ho avuto ambizioni maggiori. Dieci anni dopo che sarò morta, sono sicura che nessuno si ricorderà più di me».
Agatha Christie
Eh, il bagno! Le poesie della mia adolescenza le ho scritte quasi tutte in bagno, anche se a differenza di Agatha Christie io non ero nella vasca… Per me che abitavo con fratelli in una piccola casa con le porte delle stanze a vetro, il bagno, con la porta senza vetro, era un ritiro ideale. Fino a quando dopo un paio d’ore qualcuno non tentava di sfondare la porta per farmi uscire. Il problema, col passare degli anni, è diventato la mancanza di tempo. Ora a quarant’anni e con due figli non posso che annotare sconsolato, come il narratore di “Dalle nove alle dieci”: “Me ne andai dieci minuti più tardi, dopo aver fatto tutto quello che dovevo fare”. E quando sono dieci minuti vuol dire che mi è andata di lusso…