Laudato si’ … per sora nostra morte corporale
Visto che l’argomento potrebbe essere considerato tragico (per usare un eufemismo …) comincio raccontando due aneddoti simpatici, uno me lo ha riferito mio marito e l’altro è capitato a me.
Una collega di mio marito fa la catechista e, durante una pausa pranzo al lavoro, ha riferito ai colleghi d’ufficio l’uscita spiazzante di una delle bimbe della sua classe in parrocchia. Il prete aveva radunato i bambini in chiesa e poi aveva chiesto loro a bruciapelo: “Allora, avete capito come si fa ad andare in Paradiso?”. La bimba in questione ha alzato la sua mano e ha risposto con voce pacata: “A quanto so, bisogna innanzitutto morire”.
Forse non era esattamente il tipo di risposta preventivata dal prete, ma sono certa che lui non ne avrà trascurato il senso positivo. La percezione della realtà che si ha nell’infanzia è talvolta limpidissima, senza i molti pregiudizi di una mente adulta. Pensando al Paradiso, un adulto avrebbe dato per scontato il passaggio della morte, un bambino no. Per fortuna.
E un autentico senso di realtà porta talvolta a sparare paradossi.
Due anni fa fu chiesto ad alcuni amici e a me di allestire una mostra sul signor Chesterton. Fu chiaro a tutti che, senz’altro, il titolo della mostra doveva essere un paradosso. E trascorremmo un buon quarto d’ora, attorno a un tavolo, a sparare paradossi più o meno probabili. Il più clamoroso di tutti fu proclamato – come una vera e propria illuminazione – da Ubaldo Casotto, che se ne uscì dicendo: «L’uomo è vivo perché muore!».
Convenimmo poi sul fatto che non era molto invitante intitolare così una mostra … avrebbe quantomeno suscitato una processione di gesti scaramantici da parte dei visitatori. La mostra alla fine s’intitolò «Il cielo in una stanza», paradosso visivamente eccellente e anche luminoso. Resta il fatto che quell’intuizione di Ubaldo era geniale, per quanto a prima vista lugubre.
La vita umana è per definizione un arco di tempo limitato. La vita è un segmento, non una linea retta infinita. La vita va da A a B: la prima esperienza di vita è la nascita, l’ultima esperienza della vita è la morte. In altre parole, la prima esperienza della vita è il suo inizio, l’ultima esperienza della vita è la sua fine. Per questo la morte non è un’obiezione della vitalità umana, ma una sua caratteristica. E, in effetti e paradossalmente, solo ciò che è vivo può morire. L’uomo è vivo perché muore, appunto.
A conferma di ciò, ricordo una bellissima conferenza di Davide Rondoni, in cui lui ci ha ricordato l’antitesi tra Eros e Thanatos nell’antica Grecia: le forze che i Greci ponevano in contrapposizione nel mondo erano Amore e Morte. Non Vita e Morte, ma Amore e Morte. Perché? Perché l’opposto della Morte non è la Vita ma l’Amore?
Ecco, Rondoni l’ha spiegato così: la morte fa parte della vita, ne è l’ultimo tassello e dunque non è il suo opposto. Ma cosa è davvero opposto alla morte? Qualcosa che riesce a vincere la limitatezza della vita, qualcosa che vince la caducità del nostro essere. Ecco cosa è Amore: è la forza grazie a cui noi generiamo qualcosa che lascia frutto oltre la nostra morte. Pensiamo ai figli, che si generano per un atto d’amore e – in linea di massima – ci sopravvivono, cioè restano oltre la nostra morte. Ma è vero di qualsiasi atto d’amore: qualunque cosa generata dall’impulso affettivo dell’amore dà un frutto che si propaga oltre la caducità della nostra esperienza terrena. E questo frutto esiste anche solo per l’intuizione dell’uomo che «amando» proietta il suo agire oltre il limite personale della propria vita.
Mi perdo dietro queste chiacchiere nel giorno della Festività dei Defunti, per condividere un’impressione che da tempo mi lascia perplessa. La mia vita è radicata nell’esperienza cristiana e ho notato, soprattutto nel contesto della cristianità, che si ricorre sempre meno all’espressione: “Il signor Tal dei Tali è morto”. Ricevo messaggi in cui si annuncia la perdita di un proprio caro con frasi tipo: “è salito a cielo” oppure “è tornato dal Padre”. Sia ben inteso, io capisco e condivido il senso di queste frasi: il cristiano crede nella vita eterna e dunque non vive la morte come un’esperienza di fine. Però credo di non sbagliarmi se dico che queste espressioni tendono a voler schivare la ruvida asciuttezza di dire “è morto”.
Eppure, il cristiano più di qualunque altro sa che la durezza della morte è stata patita perfino da Gesù. Sa che la Resurrezione non è arrivata istantaneamente, ma c’è stato un «buio» tangibile di due giorni. Il limite della mortalità è stato vissuto nella sua concretezza anche dal Dio fatto Uomo. Perché, allora, dovremmo schivare noi il pensiero di ciò? Perché dovremmo escluderci l’esperienza ruvida di dire di un nostro caro che è «morto»? Nella sua misteriosa incomprensibilità, la morte è parte di noi … e non solo come mero passaggio veloce verso l’eternità, ma proprio come esperienza di limite inaggirabile con cui ciascuno di noi saluterà la sua dimensione corporale.
Ciascuno di noi si congederà dalla vita nel modo migliore, cioè nell’umiltà. Forse anche nell’umiliazione. Tutte le nostre capacità e velleità e volontà si affievoliranno fino a sparire nella polvere. E questo toccare corporalmente il limite estremo di noi sarà la premessa della vita eterna. E per quanto possa suonare assurdo, tutto ciò è consolante … perché nessuno scappa da ciò. Un uomo può aver schivato per la vita intera il grumo di ciò che lo rende davvero umano, può essersi costruito meravigliosi e onnipotenti castelli per aria. Ma poi, anche per lui arriva il momento supremo in cui farà i conti con la sua creaturalità, cioè con la sua mortalità.
Dico che è consolante perché così me l’ha fatto intuire quel genio di Chesterton.
Ho sempre considerato la festa dei Defunti come una festa del ricordo, un momento in cui ricordare i cari che ci hanno lasciato. Da quest’anno la considero anche una festa vera e propria per me, per lodare il disegno buono che c’è dietro la fragilità e la finitezza umana.
La scorsa estate ho tradotto la raccolta Il poeta e i pazzi, trovando in essa un racconto davvero illuminante. Il protagonista è il poeta Gabriel Gale che dedica la sua vita a guarire i pazzi, seguendo strategie non esattamente mediche. In una certa occasione s’imbatte in un megalomane, convinto di riuscire a controllare ogni cosa, convinto di essere padrone di tutto ciò che lo circonda. La terapia di Gale consiste nel tentare di uccidere il megalomane inchiodandolo a un albero con un forcone piantato attorno al suo collo. Il rimedio funziona, il pazzo guarisce e gli è grato, ma agli occhi della gente normale Gale risulta un folle assassino. Ecco, allora la sua spiegazione … e dunque, l’intuizione geniale di Chesterton (il testo intero uscirà a gennaio, questa è un’anticipazione):
«Ci sono passato anch’io, a dire il vero sono andato vicino a quasi tutte le forme di folli idiozie infernali che esistono. Ecco la mia unica utilità in questo mondo: sono stato ogni sorta di idiota possibile. Ma credetemi, il peggiore e più miserevole tra tutti gli stupidi è quello che crede di aver creato le cose e di essere capace di contenerle. L’uomo è una creatura; tutta la sua felicità consiste nell’essere una creatura o, come ci viene comandato dalla Voce dell’Altissimo, di diventare bambino. Tutta la sua gioia sta nel ricevere un dono o un regalo. E il bambino dimostra una coscienza profondissima, perché apprezza i regali proprio perché sono una sorpresa. Ma la sorpresa implica che una cosa giunga a te dall’esterno, e la gratitudine la si rivolge a qualcuno che è altro da te. È qualcosa di concreto che arriva per posta o entra dalla finestra o che trovi appeso al muro. Questi limiti tratteggiano le linee dell’orizzonte del piacere umano.
A me capitò anche di sognare che l’intera creazione fosse un mio sogno: ho immaginato di regalare a me stesso le stelle, di offrire a me stesso il sole e la luna. Sono andato indietro fino a prima del principio di ogni cosa, pensando che senza di me nulla di ciò che esiste poteva esistere. Chiunque abbia voluto mettersi al centro di questa specie di universo sa che è un inferno. Ed esiste una cura sola.
Oh, so benissimo quante frottole o false consolazioni sono state scritte per giustificare l’origine del male e sul perché esiste la sofferenza nel mondo. Dio ci guardi dal finire noi stessi nella gabbia di queste scimmie moraliste e chiacchierone! Ma al di là di ciò, la verità resta vera: resta oggettivamente e sperimentalmente vera. Non c’è altra cura per guarire dall’incubo dell’onnipotenza se non il dolore: perché questo è qualcosa che l’uomo sa che non tollererebbe se fosse davvero lui a controllare tutto. C’era un uomo che si credeva seduto nel trono del cielo e vedeva gli angeli servirlo sotto forma di nubi colorate, di fulmini e del balletto delle stagioni. Era al di sopra di tutto e la sua testa conteneva il cielo intero. E, Dio perdoni la mia bestemmia, io l’ho crocifisso a un albero».
Avete presente le magliette che ogni tanto si vedono in giro con la scritta: «Dio esiste, ma non sei tu. Rilassati»? Ecco, il punto è esattamente questo. Ognuno di noi sa che inferno sia – come dice Chesterton – vivere volendo avere le cose sotto controllo, come fossimo padroni della nostra realtà. Sono i momenti peggiori della vita quando uno impone il proprio impero sul mondo. Sia perché non riesce a essere padrone delle cose, sia perché è logorante e sempre insoddisfacente.
La più grande gloria dell’uomo è il suo essere creatura, ribadisce Chesterton. La nostra limitatezza umana, anche la nostra mortalità, è la sana piccolezza del bambino che sa di essere insufficiente a se stesso e aspetta il cibo e i vestiti dai propri genitori. Non è infelice il bambino, anzi è predisposto a guardare ciò che gli arriva come una sorpresa. Sa affidarsi e nell’affidarsi c’è tutta la sua pienezza serena.

E, dunque, concludo tornando alla bambina con cui ho cominciato. Per andare in Paradiso bisogna innanzitutto morire. Anche durante la vita. Morire, soffrire e patire sono la prova estrema che dichiara che non siamo padroni del mondo. C’è qualcosa che proprio non riesci a mettere sotto il tuo controllo. Dunque, forse, c’è Qualcuno di più grande a cui spetta questo compito gigantesco. Capisco che questo possa infastidire i pensieri di qualcuno, ma a ben vedere è la premessa del Paradiso. Constatare e abbracciare la propria limitatezza è la premessa per guardare fuori da sé, oltre il recinto dei propri cortocircuiti mentali. E solo così un uomo può godere di tutto nella vita, nel poco e nel tanto: sapendo che oltre la porta di casa sua lo attende qualcosa, qualcosa che lui neanche lontanamente può aspettarsi.
Ciò che scrive è molto bello. Condivido soprattutto il senso della vita intesa come un segmento e non come una linea continua. Credo che l’opposizione amore – morte sia significativa e sicuramente meno banale di vita – morte. Che cos’è per me la parola opposta a morte? Non vita ma forse vitalità o presenza. Complimenti ancora per il suo scritto.
Una volta ancora…grazie! grazie per aver messo in luce un aspetto che nella mia vita è ricorrente. Magari il motivo non sempre è esplicitamente quello di voler imporre il mio impero, piuttosto, è più un sentirmi sulle spalle dei pesi immani. Ma il risultato è il medesimo. Infatti, tu dici: “…Avete presente le magliette che ogni tanto si vedono in giro con la scritta: «Dio esiste, ma non sei tu. Rilassati»? Ecco, il punto è esattamente questo. Ognuno di noi sa che inferno sia – come dice Chesterton – vivere volendo avere le cose sotto controllo, come fossimo padroni della nostra realtà. Sono i momenti peggiori della vita quando uno impone il proprio impero sul mondo. Sia perché non riesce a essere padrone delle cose, sia perché è logorante e sempre insoddisfacente. …”.
L’insoddisfazione oltretutto pare diffondersi più velocemente di molte virtù, purtroppo..!!
Ma grazie, dicevo; questo tuo scritto rimane ed è per lo meno altrettanto concreto delle mie preoccupazioni o della mia paura di lasciare al Creatore di portare avanti il disegno che ha preparato per me (molto chiaro è anche questo pezzo tratto dal resoconto della Giornata d’inizio anno: non si “può pensare […] che il metodo immaginato da noi possa essere più incidente di quello scelto da Dio […] non possiamo […] recuperare con il nostro fare ciò che abbiamo perso nella vita. Questa, dunque, è la nostra responsabilità: non resistere al metodo di Dio” (p. XV). È semplice, non bisogna inventarsi altro. È il metodo di Dio, appunto.
Ciao!
Stefano