Gioielli imperfetti

Foto di Orbital Joe
Foto di Orbital Joe

 

Ogni autunno svolgo un corso di letteratura in collaborazione con un ente della mia città, quest’anno ho impostato il percorso sulla differenza tra il verbo «vedere» e il verbo «guardare». Mentre «vedere» parla di un’azione involontaria, di una capacità che ciascuno ha sollevando le palpebre, «guardare» parla di un’azione volontaria, in cui il soggetto sceglie di prestare attenzione a qualcosa in mezzo a tutto ciò che vede.

A conferma di ciò, il verbo inglese che indica il «guardare» è «to look at» e contiene una preposizione che suggerisce il dirigere lo sguardo verso qualcosa, cioè il mio coinvolgermi con ciò che guardo … in un avvicinamento anche solo simbolico. Quando guardo qualcosa, muovo la mia consapevolezza verso l’oggetto in questione.

Come sempre accade, quando tratti un argomento sei più pronto ad accorgerti delle cose che accadono intorno e riguardano quel particolare tema. E così è capitato che, per pura casualità, la mia amica Maria Grazia mi abbia segnalato la notizia di un fatto accaduto in America ed esattamente inerente un problema di vista.

jewel-shuping-1-435Si tratta della storia di Jewel Shuping, una trentenne del North Carolina affetta dalla sindrome di Biid. Stiamo parlando di una vera e propria patologia medica, e non semplicemente di un disturbo emotivo: le persone con questa malattia avvertono certe parti del proprio corpo come estranee e dunque desiderano alterare la loro integrità fisica. Jewel, in particolare, sentiva di poter essere felice solo se fosse diventata cieca.

E così è stato, perché, sebbene sia esplicitamente stabilito che i medici non debbano accondiscendere ai desideri di questi malati (e debbano invece curarli con terapia psicologica), Jewel purtroppo ha incontrato un dottore che l’ha aiutata a diventare cieca. L’operazione è stata peraltro dolorosa. Ora Jewel è una non vedente.

Questa tragica vicenda può suscitare solo compassione, ma non quella ipocrita di chi scuote la testa, s’impietosisce e poi giudica. Mi riferisco proprio alla compassione di chi sente di «patire con». Io non ho la sindrome di Biid, eppure quanto sono simile a Jewel! Quante volte mi procuro volontariamente delle amputazioni! Eh sì. Pur avendo una vista perfetta, quante volte sono io a scegliere un punto di vista ristretto, gretto, sterile. Scelgo di amputare da sola la mia prospettiva (e la mia umanità), quando invece sarebbe sufficiente usare gli occhi – del cuore e del cervello – che ho a disposizione.

Basterebbe guardare, basterebbe accogliere il variegato mondo oltre la porta della propria testa per trovare il cibo o la medicina che cura i nostri cortocircuiti o le nostre ferite. Perché la realtà ospita sempre qualcosa in più del nostro cervello. Eppure, fin troppo spesso, la porta del cervello si chiude e l’io si amputa da solo. Si mette a guardare il mondo secondo un punto di vista già prestabilito, ristretto, e sceglie di vedere solo ciò che conferma la propria rabbia o la propria tristezza. È un handicap autoinflitto e tragico.

Ma la cronaca è davvero stupefacente. Non mi ha lasciato indifferente il nome della ragazza, Jewel. Gioiello. Se «nomina sunt consequentia rerum», cioè il nome ci dice chi siamo, ecco … è vero che la singolarità di ciascuno è preziosa come un gioiello. E forse è proprio questo pensiero che mi ha fatto ricordare Annette, una donna di cui mi ero già occupata in un altro articolo. In Inghilterra, nella città di Frome, c’è un’orafa che è senza dita. Lei è proprio nata così e si chiama Annette Gabbedey. È quasi una contraddizione vivente: come si può forgiare gioielli con una malformazione così invalidante proprio alle mani? Maneggiare strumenti di precisione, forgiare bracciali, anelli, collane è possibile senza avere le dita?annette-gabbedey (2)

Non solo è possibile, ma è l’unico modo in cui Annette riesce a farlo. E dalle sue mani, così imperfette e manchevoli, escono oggetti brillanti e meravigliosi. Niente più di un gioiello «parla» di perfezione. Eppure può nascere da qualcosa di imperfetto.

Anche se, apparentemente, le storie di Jewel ed Annette sono opposte (un’amputazione volontaria che invalida un essere nato sano, e una malformazione congenita che non diventa invalidante per chi ne è affetto), non voglio contrapporle ma unirle. Noi siamo in molti casi Jewel, ma possiamo essere Annette. Nessuno è perfetto, spesso da soli siamo capaci di diventare peggiori di quel che naturalmente saremmo. Ma il limite non è mai un’obiezione, anche se è autoinflitto. Può sempre essere un’occasione creativa e generativa.

Quel che esce dalle nostre mani non è mai perfetto, ma può essere un gioiello. Può tralucere nelle nostre azioni o nei frutti che lasciamo al mondo quell’attesa bruciante di compiutezza che ci manca, ma che desideriamo. Non è scandaloso se la rabbia per non essere come vorremo ci riduce peggio di quel siamo, è così: spesso ci mettiamo in trappola da soli. Proprio per questo, dobbiamo ricordarci che solo la mancanza e l’imperfezione sono anche i nostri migliori alleati: sono la carne nuda e sensibilissima che, lasciata a contatto con mondo nella sua disarmata sete, ci mette all’opera con una forza incredibile, capace di dare prove stupefacenti … e inattese.

I gioielli di Annette
I gioielli di Annette

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