Ciascuno con una propria storia che si struggeva di rivelare.
Di solito, anzi spesso, anzi sempre, quando ero adolescente/giovane nessuno si accorgeva se ero o non ero presente a una festa, se me ne andavo dopo cinque minuti, se mancavo a una gita degli scout e occasioni simili. Ero la classica persona trasparente, che nessuno nota. Non ne facevo un problema, stavo bene in disparte.
Ma la trasformazione dei rapporti interpersonali, che ora passano attraverso ogni sorta di social networks, ha fatto anche di me una “prima donna”. Ho sperimentato sulla mia pelle che abbandonare un gruppo Whatsapp equivale a un lutto, equivale a dichiarare una guerra mondiale.
Sarà per quel verbo «tizio ha abbandonato il gruppo», perché fa pensare al malvagio che abbandona il cane in autostrada o al padre degenere che abbandona la famiglia per mettersi con la giovane segretaria. «Abbandonare» è un verbo decisamente troppo forte per il mondo di Whatsapp, è inadeguato. Io opterei per «tizio ora se ne frega di questo gruppo».
Infatti, io non ho abbandonato proprio nessuno. E torniamo dunque ai fatti.
Esiste una categoria sociale pericolosa, i genitori degli alunni. Quando questa congrega si organizza in cellule pseudo-terroristiche come il gruppo Whatsapp «Mamme della classe 3 A» il mondo è in pericolo. Succedono cose assurde: gente che per i corridoi di scuola non ti guarda neppure in faccia, si permette di criticarti virtualmente con una familiarità che nemmeno tuo marito ha. È assurdo il livello di intimità e amicizia fittizie che si creano solo virtualmente.
E poi la moltiplicazione del gossip, delle inutilità verbali, dei cuoricini e dei sorrisi. Ecco, a fronte di una discussione seria degenerata in chiacchiere da bar, mi sono detta che Whatsapp va bene per quando mio marito è all’estero e mi aggiorna su cosa fa, ma non va bene se a tema c’è l’educazione dei miei figli. E dopo aver visto una lista di n-mila messaggi sul suddetto gruppo di mamme, ho deciso di cambiare rotta. Ho chiesto a me stessa un sacrificio: se ci sono questioni o problemi che riguardano la scuola, fai la fatica di parlarne a viva voce con le altre mamme, non delegare al virtuale. E poi, semplicemente, mi sono tolta dal gruppo. Senza rancori, senza scenate … esattamente come accadeva da adolescente, quando andavo via da una festa e nessuno mi badava.
Apriti cielo. Si è generato il panico universale. Sono state ipotizzate cause disastrose, alcune hanno avuto sensi di colpa tremendi, è stata anche chiamata in causa la maestra per verificare che io stessi bene. Incontrandomi allegra e spensierata nei corridoi, c’è chi ha pensato: «Come fa lei a parlare tranquilla con noi, visto che non è più nel gruppo?». Bé, d’ora in poi io parlo e parlerò con le altre mamme nei corridoi, mi concedo il lusso di questo social network gratuito e non virtuale. Mi ripropongo di essere un po’ meno sociale virtualmente, magari di passare per una asociale virtuale.
Questa scelta non è un dito puntato contro gli altri, ma un’educazione e attenzione che voglio imporre a me stessa. La scorsa settimana ho partecipato a Firenze a un evento scolastico nazionale, Performance d’Autore, in occasione del quale 700 studenti italiani delle scuole superiori si sono incontrati per approfondire la conoscenza di un autore della letteratura italiana non troppo studiato, Vasco Pratolini (famoso soprattutto per Metello).
Per preparare i ragazzi a questa giornata di studio e dibattito avevamo suggerito loro la lettura di alcuni testi di Pratolini, tra cui il bellissimo racconto Lungo viaggio di Natale. E proprio questo testo si è rivelato di un’attualità disarmante.
La voce narrante racconta un suo viaggio in treno nella notte della Vigilia di Natale per tornare da suo padre. Siamo nell’Italia del secondo dopoguerra – quasi un altro mondo, rispetto a noi – e siamo su un vagone di terza classe, freddissimo. Il protagonista è seduto da solo in questo vagone gelido e il controllore gli suggerisce di cambiare posto, di spostarsi nel vagone attiguo che è pieno di gente: «’Stia mica lì solitario! Vada più avanti che c’è più gente! Dove c’è gente c’è calore».
Il protagonista si sposta e nel vagone accanto trova un microcosmo di gente diversa e molto colloquiale. Sono tutti sconosciuti, ma immediatamente si mettono a parlare tra loro. C’è una prostituta di Genova, un minatore che ha vissuto per vent’anni in Francia, un milanese arrogante, un russo che a stento capisce qualcosa di italiano e altri. Insomma, mondi lontani e si direbbe incompatibili tra loro. E invece nasce tra loro un’intimità immediata, ciascuno condivide le proprie idee, litiga, ironizza, deride. Il narratore commenta: «Noi eravamo già tutti amici, creature che si facevano caldo l’una con l’altra, ciascuno con una propria storia che si struggeva di rivelare».
Ogni uomo è una storia, ma non solo. Ogni uomo è una storia che si strugge di rivelare. Cioè: l’uomo naturalmente vuole condividere la sua storia. La propria storia ciascuno la comprende guardandola attraverso gli occhi di qualcun altro, ma non tanto perché sono gli altri a spiegarci chi siamo, bensì perché il vero di noi emerge nel momento della condivisione e non nel mondo dei propri pensieri.
Mettendo a tema questo racconto, è stato per me immediato chiedere ai ragazzi che avevo di fronte: quando oggi saliamo su un treno accade quel che racconta Pratolini? No. Ognuno sta per conto suo, cuffie nelle orecchie, e smanetta col cellulare. Si sente parte di una comunità, che per lo più è virtuale (fatta di persone che non sono presenti), e si preclude la possibilità di essere parte delle piccole comunità in cui si imbatte concretamente.
«Ma come? – si obietterà – È meglio mettersi a parlare con uno sconosciuto piuttosto che scrivere su Whatsapp alla mia migliore amica?» Probabilmente sì. Non voglio fare la bacchettona che rifiuta la tecnologia. Ma colgo un rischio, su di me innanzitutto. Sento che diventa facile delegare alla tecnologia, cioè ai messaggi virtuali, le cose importanti. Quante volte sento la tentazione di pensare a una persona e dire «questa cosa gliela scrivo, anziché dirgliela a voce» e mi rendo conto che spesso sono questioni importanti quelle che sarei tentata di delegare al mondo virtuale, perché è facile e mi toglie la fatica del batticuore di guardare negli occhi quella persona. Si tratta di una solitudine pericolosamente mascherata da «socialità» e che rischia di farci perdere TRE piccioni con una fava: sul treno, col mio cellulare accesso, rischio di allontanarmi dalla mia amica che è il destinatario del mio messaggio e sicuramente mi allontano dalla trama di vita che ho a un centimetro da me. Da ultimo, ma non meno importante, perdo anche un pezzo di me, se è vero che la mia storia si rivela quando ne rendo partecipe la piccola comunità delle persone a me care, o anche degli sconosciuti con cui chiacchiero.
È fatica parlare di persona alla gente. A volte non ti ascoltano. A volte parlano troppo. A volte ti verrebbe da voltargli le spalle. Però è solo dalla fatica che nasce qualcosa, come le doglie del parto: nessuno le vorrebbe attraversare … ma portano frutto.
Ora, lo so che è uscito il nuovo libro di Bruno Vespa e pure quello di Fabio Volo, ma io mi azzardo lo stesso a consigliarvi di leggere quel racconto di Pratolini e di comprare il libro in cui è contenuto, Diario sentimentale. Forse non sarebbe improprio sottotitolarlo: «Incontri di varia umanità, per gente che ha il coraggio di essere virtualmente un po’ meno sociale».
PS: avevo concluso la scrittura di questo articolo, ma il telegiornale mi ha messo a conoscenza di un fatto accaduto a Giacarta. Un 24enne ha causato un incidente con la sua Lamborghini, in cui è rimasto ucciso un uomo e altri passanti sono stati gravemente feriti. Il pilota del bolide è rimasto illeso e mentre stava uscendo dalla sua vettura accartocciata era già intento a scrivere messaggi col cellulare. Emblematico: hai intorno il disastro, ma tu sei già altrove.
Ciao, Annalisa! Imbattutami recentemente nel tuo blog, sto deliziandomi assaporando a ritroso i gustosi frutti del tuo rigoglioso e prolifico intelletto. La tua poetica mi dischiude alla comprensione delle cose e del mondo con una modalità assai congeniale. Ho un paio di quesiti da porti: 1) Qual’è il libro di Chesterton la cui narrazione ruota attorno alla tematica della depressione? 2) Mi piacerebbe assistere ad una delle tue conferenze: se possibile, dove e quando? Grazie! Che Dio ti benedica!
Carissima,
piacere di conoscerti. Dunque, si può innanzitutto dire che ogni sillaba di Chesterton è una sfida (vinta) contro la depressione. Il suo perenne tentativo è quello di ribaltare ogni briciolo di umano in una meraviglia non scontata. Però c’è un testo preciso in cui lui racconta di come è uscito dalla sua personale crisi esistenziale: L’uomo che fu Giovedì. Questo romanzo ha come sottotitolo, appunto, “Un incubo”. Essendo molto pudico, non dice le cose in modo esplicito, ma metaforico: è un romanzo giallo in cui un brillante poeta scende negli abissi di un complotto anarchico che vorrebbe consegnare il mondo al caos e al nulla. La depressione diventa proprio un brutale sprofondamento. Se vuoi, qui sul blog, trovi il mio commento a qs libro; è in tre parti successive, qui la prima http://capriolecosmiche.com/2014/09/17/luomo-che-fu-giovedi-parte-1-la-discesa-aglinferi/
Quanto alle mie conferenze, sono attualmente in pausa perché sono entrata nell’ottavo mese di gravidanza. Quando ricomincerò, vedrai qui nel lato sinistro del blog una casella chiamata “agenda” dove annoto tutti gli eventi a cui partecipo.
Un grande abbraccio,
Annalisa
Dici bene: La depressione è un brutale sprofondamento! Una discesa agli inferi difficilmente avversabile…
Ti son stati elargiti dei talenti portentosi: il buon Dio sarà sommamente compiaciuto del valente uso che ne fai. Tanti auguri per il proseguo della gravidanza! Che Dio faccia scendere copiose benedizioni su di te e sulla tua famiglia!
Ricambio con un abbraccio ugualmente grande,
Monica
E poi a tener su gli occhi dal cellulare può anche capitare, come è successo a me, di incrociare lo sguardo di Luca Argentero in attesa dell’ autobus…
Salve Annalisa!
ho letto tutto d’un fiato il suo scritto, spesso identificandomi e condividendo le sue riflessioni. Non posso però nascondere che mi ha fatto affiorare una sorta di “senso di inadeguatezza” legato al mio vissuto, soprattutto in età giovanile, originato dalla mia timidezza, dalle mie insicurezze e dalle mie difficoltà espressive, relativamente all’uso del linguaggio verbale, sia orale che scritto nei contesti relazionali, sia pubblici che privati. Il mio percorso scolastico è stato condizionato dalle suddette difficoltà. Col passare del tempo, però, le mie esperienze di vita e professionali, che non sto ovviamente qui ad esplicitare, mi hanno via via portato a dover far fronte a tali inibizioni che influenzavano inevitabilmente le mie capacità di socializzazione e relazione necessarie anche professionalmente. Con l’avvento della videoscrittura, della possibilità di poter in asincrono mettere a fuoco con tutta calma il mio pensiero, di poterlo scriverlo con facilità di revisione sullo schermo, per poi comunicarlo ai miei interlocutori o destinatari usando inizialmente le email e ora i vari mezzi del social network, (come faccio in questo momento, ad esempio) ho imparato a controllare le mie emozioni e ad acquisire una maggior sicurezza nell’esprimere il mio pensiero (almeno ci provo!). Tutto questo ha avuto su di me una positiva ricaduta, rendendomi più capace di controllare le mie relazioni, anche dal vivo e non solo virtuali! Ovviamente WhatsApp e simili, come tutte le tecnologie per la comunicazione, NON POSSONO SOSTITUIRE quelle precedenti ma solo integrarle e potenziarle, creando anche nuove opportunità. Come avrei potuto altrimenti concedermi il piacere (mio e non so se anche suo) che il suo blog mi permette per esprimermi! Io ricordo che da ragazzino usavo la “carta penna” (il piccione viaggiatore era stato superato da poco!!!;-)) per riuscire a comunicare tutte le mie turbe d’amore alla ragazzina che sognavo di incontrare tutte le notti, ma che dal vivo ogni volta mi poneva nella goffa situazione di non andare oltre al “Ciao, come stai?” nel tentativo patetico di nascondere il mio rossore!
Ripeto il gruppi di genitori in WhatsApp sono pericolosi se gli insegnati li lasciano andare alla deriva e alle proprie paranoie, senza avere il coraggio di convocare con WhatsApp una assemblea di classe ed affrontare non virtualmente ma in prima persona le varie problematiche di classe.
Sempre con piacere, continuerò a leggerla!
Luciano Piazza