Questa storia mi è giunta nel miglior modo possibile, cioè come una leggenda. In altre parole, ne ho solo sentito parlare. Non ho fonti scritte, non ho prove a conferma della storicità degli eventi, non ho nulla se non il ricordo della voce che mi ha raccontato quest’eroica vicenda. Tutto ciò mi fa sentire antica … e lieta. Molto molto molto tempo fa erano gli aedi a raccontare storie al popolo radunato attorno al fuoco e la gente ascoltava non tanto quella che oggi definiremmo «cronaca», bensì quelle leggende che sono molto più vere di un verbale, di un documentario, di una dichiarazione giurata.
Solo un madornale errore razionalistico ci fa oggigiorno pensare che la leggenda non sia altro che una favoletta, e solo un madornale eccesso di serietà ci fa pensare che la favola non sia altro che una storiella per bambini.
La leggenda e la favola presuppongono che il contenuto di verità di un messaggio sia più importante della storicità dei protagonisti della vicenda in questione. L’attuale idolatria per la cronaca sensazionalistica ci ha traviato, perché presuppone che rovistare sui dettagli privati della vita di persone in carne e ossa sia più importante che comunicare una qualsiasi verità.
Perciò mi vanto e sono lieta di aver avuto il privilegio di ascoltare una leggenda, un racconto orale il cui protagonista è ai miei occhi tanto immaginario e tanto vero quanto lo è Babbo Natale.
Durante la messa domenicale, nei giorni successivi a Natale, il prete della parrocchia in cui mi trovavo ha messo da parte le sue eventuali riflessioni personali per dedicare il tempo dell’omelia a leggere una lettera ricevuta da un suo conoscente. Il contenuto di quella lettera è la favola che ora condivido con voi, cioè è la storia vera di un uomo vero, ma di cui noi non sapremo altro che le sue parole.
Bisogna però dare un nome al protagonista. Essendo un eroe, lo chiamerò Orlando. È un giovane adulto come tanti, che non si nota se non per la corporatura robusta. Questa caratteristica fisica gli ha fruttato un lavoro come buttafuori in un pub di Milano. È un mestiere strano, se vogliamo, perché presuppone una sorta di diffidenza riguardo alle relazioni sociali: il suo compito è quello di sistemare le cose, quando gli altri le incasinano. Devi fare del tuo meglio, quando gli altri danno il peggio di sé. Forse a qualcuno basterebbero i vantaggi di stare sempre in mezzo alla musica, ai cocktail e a ragazze strafighe, ma Orlando non è questo qualcuno. Lui avverte tutta l’amarezza di un compito in cui deve allontanare, scrutare e diffidare delle persone.
Questa percezione si acutizza quando Orlando incontra e abbraccia l’esperienza cristiana, perché il paradosso del suo mestiere diventa ancora più palese. «Come posso essere un cristiano sincero, facendo il buttafuori?» si chiede. Si può mettere in pratica quel «ama il prossimo tuo come te stesso» in mezzo a degli ubriachi che tirano cazzotti a destra e a manca?
La difficoltà aguzza l’ingegno. O meglio, da un grande dono derivano grandi responsabilità. O, meglio ancora, se hai incontrato un bene, tendenzialmente lo condividi. Orlando si rende conto che deve rivedere da capo il suo mestiere. Bisogna mettere tutto sottosopra. Ad esempio: “buttafuori” è una parola che denota una sconfitta, perché se qualcuno viene nel tuo pub, sarebbe bello – anche solo considerando il profitto – tenercelo dentro. “Buttafuori” è una parola che inquadra solo il finale (brutto) di una storia, ma se uno guardasse quella storia dall’inizio cosa accadrebbe?
E così Orlando intuisce che il suo lavoro comincia prima, molto ma molto prima di quando si caccia in malo modo un poveretto che è fuori di sé. Tutto comincia quando ogni sconosciuto cliente entra nel pub. E non c’è cosa più evidente a tutti di quanto siano estranianti i luoghi di aggregazione: ci vai per stare in compagnia, e ignori chi hai attorno. Il primo gesto eroico di Orlando è dunque quello di salutare, a voce e con un sorriso, tutti quelli che si affacciano sulla soglia del pub.
All’inizio nessuno ricambia; Orlando viene ignorato o forse anche silenziosamente deriso. Ma già dopo una settimana questa buona abitudine fa breccia negli altri e Orlando constata che alcuni clienti cominciano a rispondere al saluto e al sorriso, quando entrano. «Allora funziona!» dice tra sé e sé. Eh sì, funziona ed è bello averne le prove, perché un conto è ipotizzare che l’amorevolezza e l’accoglienza siano le misure più adeguate a trattare gli uomini, un conto è constatare che è sperimentalmente e oggettivamente vero.
Ma non finisce qui. L’altro passo nuovo che Orlando prova è quello di prestare attenzione alle persone mentre sono nel pub: se nota qualcosa di critico, interviene subito magari avvicinandosi a un tipo che comincia a dare in escandescenza e gli parla come a un amico; parla anche a chi sta con quel tipo, ai suoi amici, e cerca di fare gruppo, in modo che si tengano d’occhio a vicenda. In altre occasioni addolcisce gli animi buttando tutto sul ridere, insomma si dà da fare affinché risse, malori e violenza siano evitati. E lo fa non mettendosi in un angolo a braccia conserte e muso duro, bensì stando con e in mezzo alla gente.
Ovviamente, questo nuovo orizzonte operativo richiede a Orlando un impegno molto più attivo e faticoso durante il suo lavoro, perché esige lo sforzo di vincere la propria istintività, esige la costante premura di guardarsi attorno e comprendere eventi e situazioni sempre nuove, esige l’adattabilità di fronte a tipi umani francamente rompiscatole. Ma qual è il guadagno?
Ecco, vorrei limitarmi a considerare il guadagno puramente materiale contenuto in questa storia. Il guadagno in termini umani, quello più importante, è fatica da descrivere a parole, perché lo si gode in pienezza solo facendone esperienza. Ciascuno di noi, quindi, si arrischi a sentirne l’inebriante brivido sulla pelle! Ma è interessante considerare, appunto, anche solo il guadagno materiale toccato con mano da Orlando, perché – alla fin fine – non è solo «materiale». Di fatto, nota il nostro eroe, da quando nel pub si respira quest’aria nuova (che Orlando ha condiviso e proposto ai colleghi) i clienti sono aumentati, e anche il fatturato. Ci si può limitare a strofinarsi le mani e a stamparsi il simbolo dei dollari sulle pupille, oppure si può allargare lo sguardo e notare che la gente non è scema: se incontra un luogo in cui vale qualcosa di più umano del rapporto domanda/offerta, tende a preferirlo ad altri contesti mondani e ultrachic, ma aridi. E questo è confortante.
Ogni leggenda che si rispetti ha una morale, come le favole. Possiede, cioè, qualcosa che può essere di utilità a tutti, in contesti diversi e vari. La morale di questa leggenda è un po’ più radicale di «fai il buono e il mondo diventerà più buono». Orlando ci racconta innanzitutto che se uno ha un’ipotesi – o un ideale – di vita vero e valido, allora questo lo rende una persona attiva, volenterosa e creativa nel quotidiano. L’uomo pigro e svogliato non è quello che ha tutto e quindi è «a posto»: l’uomo pigro è quello privo di ragioni adeguate per tuffarsi a capofitto nel casino del vivere.
Ma c’è altro. E quest’ultima nota che vorrei documentare è – di questi tempi – fondamentale. Le circostanze avverse, le sfide impossibili, le scalate ardue sono occasioni altamente favorevoli. Un buttafuori non è esattamente un modello di virtù cristiana. Ma, in fondo, perché no? Non è insensato o ridicolo un buttafuori che porge l’altra guancia, è solo un esemplare umano un po’ più interessante delle nostre vedute limitate e omologate.
E qui il punto è proprio il paradosso umano. Il punto è che ogni uomo fa davvero la differenza nel luogo in cui è e non ci sono circostanze davvero chiuse e impraticabili. Se una persona è mossa da un’idea convincente (se è mossa da qualcosa di buono e vero che nutre il suo io), allora troverà strade creative insospettabili anche in mezzo a eventi apparentemente avversi. Quante volte il luogo di lavoro non solo non ci gratifica, ma sembra proprio strozzarci e schiacciarci! Il datore di lavoro non capisce le nostre potenzialità, i rapporti coi colleghi sono cordiali solo apparentemente, i risultati tardano a venire. E noi ci diamo per vinti. Poteva farlo anche Orlando constatando i dati (apparentemente) inconciliabili della sua situazione: “sono un buttafuori” e “vorrei praticare l’accoglienza cristiana dell’altro”. Eppure, è proprio quando la corrente rema contro che la creatività umana può dare il meglio di sé. Strade nuove si aprono solo di fronte a ostacoli grandi. Ma a patto che uno abbia un «movente».
Un buttafuori gentile è un paradosso. Ma non è una creatura artificiale costruita in laboratorio, è una meraviglia della realtà: lì dove c’è un io all’opera perché «mosso» da un’intuizione o da un ideale che lo entusiasma, non c’è più previsione che tenga o regola scritta o grafico … perché germogliano un mucchio di novità impensabili, concrete, fruttuose.