Un po’ di selva nel mezzo del giardin

Foto di Tom Jutte ukgardenphotos

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Foto di ukgardenphotos

Quando mi affaccio dal balcone della sala, l’occhio mi cade immancabilmente su quell’angolo del mio giardino che trascuro, perché richiederebbe una manutenzione pesante. Ora, d’inverno, quel cantuccio è proprio bruttarello … tutto spoglio e pieno di foglie secche che sono marcite per la pioggia … ma in primavera e in estate è un anarchico tripudio di erbe, fiori, pianticelle spontanee.

Guardandolo, mi torna sempre in mente una riflessione di Chesterton, in cui mi sono imbattuta traducendo La ballata del cavallo bianco: l’ultima scena che si descrive in quel poema è l’eroica impresa di un grande re che per l’ennesima volta sconfigge i nemici invasori. È un trionfo, che però la penna di GKC mitiga o altera facendo notare che, mentre il re era impegnato nella grande battaglia, il giardino del suo regno era stato invaso dalle erbacce, le quali avevano coperto e nascosto tutti i segni belli presenti sulla terra, tra cui il disegno del cavallo bianco.

La critica ha sempre giudicato pessimistico questo poema, proprio a causa del finale. Da un racconto epico ci si aspetta un epilogo glorioso, nel trionfo o nella tragedia, invece è insolito trovare una storia che finisce in modo così triviale e dimesso e che parla di erbacce del giardino. Chesterton è così, deve sempre lanciare un guanto di sfida al suo lettore. E se sono sicura di qualcosa, è proprio che le sue sfide non s’inchinano mai al pessimismo, bensì alla scommessa di discernere una gioia più grande.

Non dico che quel finale mi sia stato subito chiaro, però pensandoci e, soprattutto, pensandoci stando immersa nella mia vita, ne è emerso un orizzonte interessante: il punto è che noi siamo sempre impegnati in «grandi progetti», spesso facciamo dipendere il valore della nostra persona dall’esito di eventi clamorosi, l’ago della bilancia si sposta sul positivo se vediamo – dati alla mano – risultati eclatanti. In realtà, mentre noi spostiamo l’attenzione su tutto ciò, perdiamo per la strada qualcosa. Il nostro giardino.

Non appena trascuri un ritaglio d’erba, ci sono migliaia di piccoli vegetali pronti a invaderlo e a mascherare la sua forma originaria. Così accade anche la nostra testa: mille specie di parassiti sono pronti a oscurare i nostri pensieri, non appena noi ci concentriamo su altro, cioè quando spostiamo l’attenzione dall’«io» all’«ego».

«Che gioverà infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde l’anima sua?» – si legge nel Vangelo. E la domanda si riferisce a un’esperienza concretissima: noi tendiamo a liquidare come insignificante quello che è piccolo e vicino, rispetto a imprese grandi ed eclatanti. Il nostro Ego gode della visibilità ampia e plateale. Ma lì dove l’Ego gode, l’Io si avvizzisce.

L’Io, tendenzialmente, si nutre proprio di ciò che circonda la nostra vita; curare le piccole cose domestiche che ci stanno intorno è l’impresa più eroica e faticosa che possiamo fare. Perché le erbacce non basta sradicarle una volta sola, bisogna farlo di giorno in giorno. Ma è un lavoro cosmetico fondamentale, come quando ogni brava signora o signorina si strucca la sera davanti allo specchio: «E ora, togliendo la maschera che ti fa bella agli occhi del mondo, vediamo chi sei davvero!».

Però, il bello di ogni immagine reale è la sua grande potenza simbolica. Il simbolo è una spinta per stimolare la nostra intelligenza a vedere … a vedere dentro le forme della realtà il profondo della nostra anima. E ogni immagine può contenere simboli diversi, anche opposti eppure significativi nella loro diversità. Questo è davvero entusiasmante. Ad esempio, qualche giorno fa ero in macchina coi miei figli e – non ricordo a proposito di quale discorso – è saltata fuori la domanda: «A cosa ti fa pensare il mare?». Il figlio di 9 anni ha detto: «Alla libertà», quello di 5 ha detto: «Mi fa paura». Una stessa immagine può aprire un ventaglio di intuizioni complesse e articolate … e non c’è il giusto e lo sbagliato, c’è un senso che si approfondisce.

Lo stesso è capitato a me a proposito delle erbacce.

Dopo la lettura di Chesterton, vedere le erbacce in giardino mi aveva sempre «punzecchiato» a ricordarmi che, prima di perdermi in sogni di gloria, devo curare le cose che ho a portata di mano. E le sradicavo pazientemente. Nell’ultimo numero della rivista Gardenia ho trovato qualcosa che ha rivoluzionato, ampliandolo, lo status quo della mia idea sulle erbacce. Nell’articolo in questione, scritto da Pia Pera, si citava un passo dell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco:

«Poiché Dio si manifesta in ogni sua creatura, San Francesco chiedeva che nel convento si lasciasse sempre una parte dell’orto non coltivata, perché vi crescessero le erbe selvatiche in modo che quanti le avrebbero ammirate potessero elevare il pensiero a Dio autore di tanta bellezza».

Leggendo queste righe, ho subito pensato al mio cantuccio di giardino lasciato all’incuria. E ho pensato anche alla mia mano pesante che talvolta va lì a togliere l’esuberanza di certa vegetazione spontanea. Ne ho dedotto qualcosa di molto sincero: «Quante volte sono capace di strappare le cose, solo perché non crescono come voglio io». Ne ho anche dedotto: «Quante volte ho raccolto del buono, proprio dove non l’avevo seminato io». IMG_0184

Insomma, il rapporto con le erbacce si complica. O meglio, si fa entusiasmante. È vero che, da una parte, bisogna stare all’erta dalle invasioni infestanti che alterano le forme originarie e nascondono la verità. È altrettanto vero, ed educativo, che ci deve essere una parte del nostro «giardino» che sia libera dalla nostra mano, affinché possa vedersi una mano più grande.

Sarebbe orgoglioso ridursi a pensare che la bellezza e i frutti dipendono esclusivamente dalla nostra opera, sarebbe fuorviante ridursi a pensare che solo un ordine progettuale e definito genera frutti buoni. Quante volte una situazione ingarbugliata e incasinata come una selva ci ha portato a un risultato inaspettatamente buono, e non preventivato?

Il destino a volte segue percorsi bui e contorti. Ma genera sempre qualcosa di fruttuoso, anche se passa dalla fatica della selva. La bellezza non è solo ordine e colori «che si abbinano bene»; c’è una bellezza disarmante nei giardini selvaggi, lì dove è all’opera una potenza libera che si manifesta in forme che sbriciolano i logici criteri paesaggistici, eppure sono magnifiche.

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Foto di Tom Jutte 

Ci sono disegni che la mente umana decifra come disordine a prima vista, e invece sono un ordine più grande. C’è di più, molto di più nel mondo. Più di quello che noi siamo capaci di progettare, preventivare, organizzare. Ed è questo misterioso “di più” il custode della nostra speranza. Perché talvolta il bene e il buono possono sbocciare solo da variabili impazzite, quando a noi ogni via sembrerebbe chiusa e impraticabile.

 

Anche io, dunque, lascerò una parte del mio giardino all’opera libera delle erbe selvatiche, per ricordarmi che c’è bisogno pure della selva: c’è bisogno di non temere i disegni del destino incomprensibili a prima vista e c’è bisogno che queste variabili ingestibili facciano parte di noi, per non ridurci a pensare che sia degno e utile solo ciò che è a nostra misura.

Intanto, nell’altra parte di giardino continuerò l’altra grande battaglia, quella della cura alle piccole cose. Starò ferma ad ammirare il ritaglio di terra dove la bellezza segue i criteri assurdi del Creatore, e mi rimboccherò le maniche per lavorare nell’altro ritaglio, dove è necessario che la mia mano sia utile per accudire tutto ciò che cresce, affinché non venga rovinato dalle malattie o dalle infestanti.

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4 commenti

  1. Condividiamo simboli da interpretare, finché saremo pronti a condividere l’Archetipo del Sé, l’unione degli opposti, del maschio e della femmina, dell’ordine e del disordine, del coltivato e del selvaggio. Allora scopriremo, come scrive De Gregori, che dell’amore non si butta niente.

  2. Bellissima metafora!!! La condiviso in ogni sua espansione; funziona perfettamente, anche per un agnostico come me, se solo sostituisco il riferimeno a “Dio”, “Creatore… con la mano più grande” con “Natura e Caso”!

    • Caro Luciano,
      che bello risentirla! Spero stia bene; io sto diventando una mongolfiera … o, per rimanere in tema botanico, un grosso cactus. Ma tutto bene.
      Un caro saluto,
      Annalisa

      • Bello è, come sempre, leggerla e ri-leggerla! Io sto …senza aggettivi! In quanto alle sue auto-definizioni credo che lei debba sentirsi “fiera” nel diventare “mongol-fiera” : un mezzo che sa “volare alto” , come nel suo caso, trasportando la vita nel suo seno, senza devastare il territorio o inquinare l’aria!!! O se preferisce l’associazione botanica, lei conosce meglio di me il ruolo centrale del cactus nelle “fitoterapie”, oltre al suo non trascutabile, e a volte non disprezzabile, “effetto allucinogeno” !!! 😉

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