Solo quando il mondo naturale viene visto come buono, il male diventa intellegibile
come forza distruttiva e risultato necessario della nostra libertà.
Flannery O’Connor
Il delitto di Luca Varani continua a essere una vera e propria manna per i giornali, per i gossip, per i chiacchieroni dei social networks. È tutta una gara al «voglio dire la mia» e al «ho scoperto un altro dettaglio osceno». È tutta una gara alle etichette: «vedi cosa combinano i gay?» da una parte e dall’altra «però quell’altro era un gay represso, quindi un omofobo della peggior specie». Anch’io effettivamente non ho resistito a sputare etichette e mi sono lasciata andare a pensieri poco carini sui figli di papà e sui loro vizi. Siamo tutti imperfetti e tutti vogliamo dare un nome alle cose, così che anche le faccende più informi ed esagerate possano darci l’impressione di essere contenute da una definizione o spiegazione.
Mi sono perciò imposta il silenzio, prima di scrivere qualcosa su questa vicenda. Ho letto tanto e ho pensato, e più leggevo e pensavo più mi sentivo precipitare in un regno alieno abitato da forme viventi che poco avevano a che fare con l’umanità. Corpi abusati, istinti sviscerati fino alla nausea, non voci ma singulti o gemiti o orgasmi. Mi sono chiesta se avesse un senso precipitare senza paracadute in questo mondo di eccessi e depravazioni. Forse sì. Quando si esplora un pianeta arido e disabitato, posto ai confini di una galassia lontana, non ci si può aspettare di trovare un’edicola o una rete fognaria o un’antenna radio. Non c’è nulla di domestico. È solo deserto e silenzio.
Allo stesso modo, ho provato a immedesimarmi nel mondo buio e distruttivo dei giovani romani che hanno ucciso Luca Varani senza il rassicurante appoggio delle mie certezze ideali.
Ho messo nel cassetto la mia morale e il mio perbenismo, la mia sensibilità e le mie esperienze. Ho tentato di abitare quel loro pianeta così lontano. Ho tentato. E la prima impressione che mi è arrivata addosso è stata il gelo della solitudine. Chiudersi in casa a drogarsi è solitudine. Un’orgia è solitudine. Prostituirsi è solitudine. L’omicidio è solitudine. Nei giorni che hanno visto nascere e degenerare quest’orribile tragedia credo che vittima e carnefici abbiano sentito, consapevolmente o meno, l’alienazione e l’orrore della solitudine come pochi altri al mondo. La solitudine del carnefice fomenta e accresce la sua brutalità, quella della vittima accresce la sua disperazione. In entrambi i casi è sconvolgente.
La seconda impressione che mi è arrivata addosso è la grande vertigine della malvagità. Il leone è un predatore e sbrana la sua preda. Un black mamba è letale quando aggredisce. Il loro istinto, però, è puro e quasi innocente; non sono capaci di uccidere premeditando la tortura. L’uomo può diventare un predatore letale mosso da una malvagità cattiva che il leone o il black mamba non conosceranno mai. L’istinto dell’uomo, anche nei suoi momenti di delirio più sfrenato, è sempre accompagnato da una coscienza che la bestia non ha. Perciò l’uomo può diventare più bestiale della bestia.
Per i supereroi vale la regola del «da un grande potere derivano grandi responsabilità». Può per l’uomo esistere l’ipotesi del «da una grande abiezione deriva il bisogno di un grande riscatto»? Ripeto, ho provato a chiedermelo senza appoggiarmi a nessun paletto precostituito della mia moralità, senza affidarmi ai paracaduti delle mie certezze. Ho provato ad abitare nel pianeta arido, buio e disumano di Marc Prato e di Manuel Foffo. E sono arrivata al loro bivio: dopo aver torturato e ucciso Luca Varani e aver dormito col cadavere un’intera notte, uno dei due tenta il suicidio (gesto, forse, cinicamente calcolato per costruirsi già una linea di difesa …), l’altro si reca insieme al padre a un funerale.
Probabilmente io avrei optato per il suicidio. Avrei messo il sigillo della solitudine su una storia che parla solo di solitudine. Uccidere qualcuno è già, in parte, uccidersi, cioè negare la vita. Meglio dunque darla vinta del tutto al buio della negazione. Nauseato di cocaina fino alle viscere e con gli occhi pieni del sangue e delle tribolazioni di un altro essere umano, cos’altro potrei fare se non uccidermi? Nulla.
Ma, a questo punto, constato la presenza di un altro dato in questa storia. L’altro ragazzo, ancora del tutto stordito dal sesso dalla droga dall’insonnia dal delirio omicida, si trova in macchina con suo padre e a un certo punto gli dice: «Papà, ho ammazzato un uomo». Questa frase è l’unica cosa che non parla di solitudine in tutto l’abisso di questa storia. Nessuno gli chiede di confessare. Lo fa. Forse inconsapevolmente, ma lo fa. Ha ancora gli occhi fuori dalle orbite per la cocaina, ma lo fa. Non è lucido e non è pentito, ma lo fa. Non è una persona moralmente a posto, ma lo fa. Forse è mosso solo dalla paura o dall’incapacità di gestire il suo delirio, ma lo fa. Confessa, con poche parole … a suo padre.
Il leone e il black mamba non si confessano delle prede che uccidono, perché non c’è n’è bisogno. Il leone e il black mamba non sono cattivi quando uccidono. L’uomo sì. Perciò fa parte dell’umano un insito contraltare, clamoroso quanto lo è l’abiezione di cui solo un uomo è capace. Non è imposto dall’esterno, dalla morale, dalle forze dell’ordine. È un bisogno connaturato nell’umanità. È il gesto di dire a qualcun altro qualcosa che è dentro di sé. Ed esce pure dalla bocca di un giovane stordito, incosciente e cattivo.
Sentire in un regno alieno fatto di gemiti, orgasmi, singulti una voce che dice: «Papà, ho ammazzato un uomo» è come trovare una minuscola traccia di umido su un pianeta deserto e arido ai confini della galassia. Ti fa dire subito: vita. E ti fa anche dire: possibile?
A me non interessa capire, sapere, spiegare perché Manuel Foffo ha detto quelle poche a suo padre. Non mi interessa sondarne la sincerità o la non sincerità. Può pure averlo fatto senza rendersene conto o come estremo atto di codardia. Non sto dicendo che si è sentito in colpa e ha confessato. Sto dicendo che, dopo tre giorni di subumanità e disumanità, ha fatto qualcosa che lo identifica – ancora – come umano. E umano significa solo umano, non buono.
La confessione è ritenuto il più ridicolo e moralista dei sacramenti cristiani. Ebbene no: è un tratto che identifica la razza umana. Confessarsi non è – in prima istanza – sentirsi colpa. Confessarsi non è aver paura di un Dio cattivo e punitivo. Confessarsi non è avere una morale. Confessare è dire a un altro qualcosa di sé; è essere in relazione, chiedere una relazione. Nella razza umana la comprensione di sé passa attraverso il legame con gli altri.
Di confessioni ne sono pieni i teleromanzi e i gialli. Ne sono pieni i bagni delle scuole superiori e le pause caffè tra colleghi. Non è una faccenda esclusivamente religiosa, perché la religione è un passo oltre la confessione istintiva: vuole un cuore che chieda il perdono. Ma il perdono esiste perché esiste questo bisogno di non tenere per sé le proprie cose, di non essere padroni esclusivi della propria storia. Io personalmente credo che l’istintivo bisogno di confessare ad altri qualcosa di sé sia la prova che tutti – consapevolmente o meno – sentiamo la necessità di essere perdonati, cioè sentiamo la necessità che sia una voce esterna a dirci che noi non siamo i nostri limiti o le nostre abiezioni o le nostre insicurezze. Ma questa è una conclusione successiva, e non è detto che sia condivisa o condivisibile.
Non è detto che tutti cerchino il perdono, lo vogliano o si sentano in colpa per certe azioni. Ma l’atto semplice di dire a qualcun altro un nostro tarlo, cruccio, pensiero, emozione è proprio dell’umano; è proprio di ogni essere umano, anche di un assassino drogato marcio.
Qui mi fermo. Perché non ho lezioni da impartire. Mi basta annotare nel mio quaderno umano questo dato: dentro una vicenda perversa e delirante, oscena e angosciante, a un certo punto … senza nessuna imposizione e forse con pochissima lucidità … una voce sballata, stordita, spietata ma indubitabilmente umana ha detto: «Papà, ho ammazzato un uomo».
Cosa diceva padre Brown a proposito del suo metodo investigativo? Risolveva l’indagine perchè lui quel crimine l’aveva commesso, perchè lui quel peccato l’aveva fatto e sapeva come pensa e si comporta un criminale. E’ pura connivenza.
Quando ti trovi lì sporco di sangue, con un coltello in mano e la tua vita distrutta, il cuore non vuole cedere, vuole ancora una possibilità di tornare felice perchè è fatto così e SA precisamente dove è quel punto di speranza nella sua vita e se è onesto con se stesso, come hai detto tu, decide di passare attraverso le pene dell’inferno (gogna, carcere e magari anche morte) pur di avere una goccia di quella speranza. Il cuore sa, possiamo sconvolgerlo con mille droghe, ma il cuore come una lama attraverso il cervello obnubilato e ci mette davanti alla verità, ti fa alzare, andare da tuo padre e dirgli: “Padre ho sbagliato…”. E un padre che il tuo cuore riconosce come punto di speranza è certamente un padre che si alza a ti corre incontro.
Un padre porta suo figlio ad un funerale, perchè? Il figlio, dopo aver ucciso una persona, accetta di andare ad un funerale, perchè? E’ tutto lì.
Grazie Annalisa.