Cara Marina,
avevo immaginato il giorno in cui avrei scritto questo post, ma me l’ero immaginato in tutt’altra maniera rispetto a ciò che è accaduto. Avevo immaginato di condividere coi lettori di questo blog la nascita della mia terza bimba, Matilde, ma non avevo immaginato che la sua nascita sarebbe coincisa – con un tempismo esclusivamente divino – con la tua morte.
Non saprei dire se ero davvero tua amica, io senz’altro ti sentivo amica anche se il rapporto con te non aveva nulla in comune con le altre amicizie che ho. Con l’amica di solito si chiacchiera, si spettegola, si condivide la tristezza, la gioia e i consigli sulle scarpe, ci si sfoga sui mariti o morosi, ci si accompagna reciprocamente attraverso le tappe salienti della vita. Ecco, tu eri silenziosa e sentivo sempre una certa distanza da te anche quando eravamo assieme. Non che tu mi tenessi a distanza, questo no assolutamente. Ma eri sempre a un passo da me, una distanza pudica. Non parlavi molto, ma tutto quello che dicevi era smaccatamente sincero, schietto e onesto. Non parlavi molto di te, ma eri attenta a conoscere cosa mi accadeva e come stavo. Non parlavi molto, e io non ero capace di abitare quel silenzio bellissimo come lo facevi tu. Tu eri a tuo agio nel silenzio delle parole (… pieno di pensieri), io invece mi sentivo a disagio e facevo la scema, sparavo sciocchezze a manetta come fanno i romagnoli «pataca». E poi finivo per pensare che tu mi credessi stupida. Ma era solo una mia impressione, tu condividevi con me poche cose, ma importanti, e questo significava amicizia e stima nei miei confronti. Avevi un’ironia assurda, eri talmente seria nel dire certe cose ironiche che mi veniva da pensare fosse un atteggiamento studiato. No, era decisamente spontaneo, altrimenti l’effetto non sarebbe stato così disarmante.

Non hai parlato molto della tua malattia, ricordo una volta sola in cui, col volto rigato di una lacrima, mi dicesti: «Ho paura, perché io non sono mai stata malata davvero prima d’ora». Lo considerai un gesto d’intimità immenso che ti ringrazio di aver condiviso con me. Non lo dimenticherò e, per come potrò, cercherò di far sì che porti frutto il senso di quel tuo consegnarti titubante, vertiginoso e gentile a un destino ignoto e buio. Alla fine, tu … non so dire come … hai messo la parola «luce» in fondo al tunnel della tua sofferenza carnale.
E hai misteriosamente passato il testimone a mia figlia.
Sono venuta in ospedale da te di giovedì: avevi le unghie con un meraviglioso smalto blu e mangiavi di gusto i passatelli di Raffaella, snobbando la sbobba dell’ospedale. Mi hai detto: «Cosa c’è lì?» e intendevi il mio pancione. Anche in questo caso ho fatto la scema, ho smorzato la tensione emotiva buttandola sulla battuta. Ti ho risposto: «Marina, sono io che adesso devo venire in ospedale … a partorire. Tu torna a casa, diamoci il cambio». Mi hai detto: «Torno a casa domenica». Così è stato, ma sei tornata alla casa del Padre. Di domenica come avevi detto.
Sono venuta al tuo funerale il giovedì successivo. Non ero sicura di farcela perché la stanchezza a fine gravidanza è debordante e cominciavo a sentire qualche «avvisaglia». La messa è stata l’immagine di te: sobria, intensa, poetica, luminosa e dolce. Guardavo dal fondo della chiesa tutti gli amici che erano venuti a salutarti e a un certo punto ho pure sorriso, pensando che eri al centro dell’attenzione e … forse … non l’avresti gradito. Non era da te essere una prima donna. Poi ho pianto a dirotto quando Davide Rondoni ha letto la poesia che ha scritto per te e che comincia:
A un cenno di Dio
Le anime più timide
Si fanno splendenti
La notte di quel giovedì non ho dormito perché sono arrivate le prime contrazioni, ma non volevo ancora convincermi che fossimo arrivati al momento della nascita. Venerdì le contrazioni sono progressivamente aumentate e mi sono decisa a chiamare il mio angelo custode, l’ostetrica Chiara, che mi ha seguito e mi avrebbe personalmente accompagnato nel travaglio. Lei mi ha visitata e con un sorriso ha risposto al mio impaurito timore: «Da adesso si va solo avanti». Un delicatissimo modo per dire che era tempo, era IL tempo.
Insomma, sono entrata in ospedale e poi in sala travaglio; nella borsa avevo con me la foto del tuo ricordino del funerale, quelle in cui sorridi bellissima. Alle 22.05 Matilde è nata.
Mistero grandissimo di Chi disegna la realtà e ci parla dentro il vento che sussurra, il fiore che sboccia, l’acqua che scorre. Dentro questo grande mistero è accaduto che tu entrassi nella Casa del Padre e l’indomani Matilde entrasse nella vita e nella nostra casa. Tu ti sei congedata da tutto ciò che è terreno e lei ha cominciato a conoscerlo. A pensarci, sembra un passo a due di danza; un ritmo universale tra voi due. Come non vederlo come un bellissimo e vertiginoso passaggio di testimone? Come potrò guardare mia figlia senza pensare a te, che appena arrivata in cielo mi hai accompagnata a farla nascere? Ecco. Ora sento davvero di dire che siamo amiche. E non avrei mai pensato che la trama degli eventi ci legasse in una storia così incredibile.

Mi hai fatto capire anche un’altra cosa, a dire il vero. Ai più sembrerà una stramberia folle o persino una bestemmia quello che sto per dire. C’è un punto di contatto, o somiglianza radicale, tra il tuo tumore e la mia gravidanza. L’unico modo di guardare in pienezza positiva, e non egocentrica, una gravidanza è considerarla al pari di un tumore … cioè di una “estraneità-alterità” che s’infila dentro il corpo. In entrambi i casi è un Altro che viene a visitarti, invadendo il tuo corpo. Il parto è il vero momento in cui si capisce l’essenza autentica della gravidanza ed è morte di sè (nel dare la vita), proprio come è morte ciò a cui porta – talvolta – un tumore.
La morte non è una cosa brutta, è l’io che si consegna a Dio. Considerare la gravidanza come qualcosa che la donna «fa e gestisce» è un errore madornale. L’unica capacità vera che la donna ha nel dare la vita a un figlio è quella di consegnarsi a un progetto universale che sta dentro il suo corpo, ma di cui non è padrona. E partorendo, una donna sente – addirittura – che deve morire per dare la vita. Deve abbandonare le sue sole forze e aprirsi a Dio che – attraverso le sue viscere – porta nel mondo un essere umano nuovo. C’è un supremo momento di morte nel travaglio in cui la donna non può più nulla, deve consegnarsi a un Altro, ad una alterità che la sfinisce e la devasta.
Le contrazioni iniziano piano e sono come l’eco dell’origine del mondo che viene a visitarti dai secoli dei secoli; è l’esplosione del Big Bang che pian piano arriva fino alla tua pancia, per farti esplodere. Le contrazioni sono il battito cardiaco dell’universo, voce potente e diretta del Creatore. E il corpo deve cedere, deve lasciarsi morire. Così è nella malattia che porta alla morte. Il corpo deve cedere di fronte all’invasione di una sofferenza che ha la forma carnale di un tumore che via via cresce dentro. Il corpo sfinito si abbandona a Dio e alla sua volontà, a volte incomprensibile.
Certo la gravidanza non è una cosa drammatica come la malattia. Sì, è vero, verissimo. Ci mancherebbe. Eppure in questo passo di danza misterioso, in cui tu, Marina, hai incontrato e incrociato la mia Matilde, ho intuito un’altra cosa. Così come la tua malattia ha detto qualcosa alla mia gravidanza, ecco che la mia gravidanza ha qualcosa da dire alla tua malattia devastante e mortale. È qualcosa che c’entra con quell’enigmatica frase di Gesù sul seme che solo morendo dà frutto. Durante il travaglio e il parto questa verità è lampante: la donna muore di dolore per dare la vita, si spacca come il seme che sboccia.
La tua sofferenza e morte, cara Marina, ha in modo del tutto simile generato vita. Dal cielo senz’altro vedrai come la gente, i tuoi amici, si sono «svegliati» da quando ti abbiamo salutato in chiesa. Anche io sono tra questi. Improvvisamente, sei fiorita, tutto ciò che hai scritto e fatto durante la tua vita ci è luminosamente esploso davanti agli occhi. È quasi assurdo da dire, ma ora capiamo meglio la tua voce di scrittrice. Lo capiamo meglio ora, che sei assente. Morendo stai dando frutto, stai dando grande frutto. Sei viva tra noi e generi vita in un modo tutto nuovo, addirittura più compiuto. Ci manchi, tanto. Eppure ci sei. E in più io ti vedo tutte le volte che guardo negli occhi mia figlia.
“L’uomo non possiede la vita, la riceve. E nel momento in cui cessa di trasmettere vita, in quel preciso momento la vita in lui si disseca. La vita si alimenta di vita donata” BENVENUTA PICCOLA MATILDE!
Grazie! Tutto ciò che hai scritto si adatta alla perfezione alla malattia e alla morte di mio marito Antonio,che è tornato da Gesù due mesi fa,in particolare il passaggio in cui parli del frutto che nasce,miracolosamente,da questa apparente sconfitta. Un grande abbraccio a te e alla tua bellissima Matilde.
Cara Cristiana,
un abbraccio grande e una preghiera per Antonio, anche lui ci accompagni dall’alto!
L’ha ribloggato su Luca Zacchi, energia in relazione.
Grazie di cuore. Matilde è meravigliosa!
Raimondo