La realtà è quella «cosa» che accade, mentre tu avevi in mente di fare altro. La casualità è quella «cosa» che, grazie a una vera e propria scemenza, ti fa accorgere di ciò che sciocco non è.
La scorsa settimana sono stata invitata a Forlì per partecipare a una conferenza introduttiva a un evento bellissimo, la lettura integrale della Divina Commedia in tre giorni consecutivi, allestita da gente comune sotto la guida del regista Franco Palmieri.
Dopo anni di seminari, conferenze e incontri, ho cambiato il mio stile oratorio: all’inizio avevo sempre l’assillo di stupire l’uditorio, come se fossi io al centro della scena. L’orgoglio è una brutta bestia. Nel tempo, mi sono messa in discussione e ho scelto di non preparare in anticipo i discorsi. Non è incuranza o pigrizia. È una sfida. Ho sempre sostenuto astrattamente che la letteratura ha a che fare con la vita, quella quotidiana, quella carnale; perché non verificarlo esperienzialmente? – mi sono detta. Ora il mio piano di battaglia abituale è questo: preparo in anticipo solo il tema o fulcro da proporre all’attenzione di chi mi ascolta e poi, sul momento, «guardo» cosa accade attorno a me e uso le particolari circostanze che incontro per «incarnare» il tema che ho scelto. Da quando ho fatto questa scelta, è sempre accaduto che ci fossero eventi piccoli o grandi capaci di illuminare di esperienza il tema astratto da me pensato. È un salto nel vuoto, perché mi chiede di fidarmi dell’onestà della vita, che non tradisce mai quel vero che s’incontra nei libri.
Eccomi, dunque, pronta a preparare il mio intervento alla conferenza di Forlì: la mia scelta astratta era stata quella di fare la cosa più scontata possibile, per dimostrare che scontata non è. Tutti conoscono i primi versi della Divina Commedia, eppure sappiamo davvero cosa dicono? Ebbene, il mio piano teorico era di parlare di questi versi super-mega-conosciuti e poi … stare a vedere cosa mi avrebbe aiutato a spiegarli.
Ed è accaduto di nuovo. La realtà mi ha portato un fatto che, inaspettatamente, ha confermato la verità di quei versi in modo così autentico da essere commovente. Ed è stata una vera e propria scemenza a farmi accorgere di un parallelo che altrimenti avrei ignorato. Io dovevo parlare di una selva oscura, la cronaca parlava a gran voce dell’atroce vicenda di Sara Bosco. Selva e bosco. È bastata questa sciocchezza a catturare i miei pensieri, una casualità che ha spazzato via la distrazione.
Sara Bosco è morta a 16 anni di overdose, sola su una barella tra i corridoi fatiscenti dell’ospedale Forlanini di Roma (quella parte abbandonata dell’edificio che attualmente è ricettacolo di drogati, vagabondi, prostitute). Sua madre l’ha cercata tutto il giorno, disperatamente, e l’ha trovata quando ormai era troppo tardi. Katia, la mamma, ha provato a rianimare la figlia, al buio in quel corridoio sporco e zeppo di rifiuti e siringhe, ma non ce l’ha fatta. Dice Katia: «Le ho dato due baci in fronte e poi l’ho vista portare via chiusa in un sacco nero». Sua figlia, di 16 anni. È la selva oscura che ri-accade. Dante non scherzava quando scrisse «nel mezzo del cammin di nostra vita». Nostra: accade a me il buio, accadrà a te fra dieci anni, accadde sul Calvario 2000 anni fa. È roba nostra, il buio.

Alla luce di ciò, mi sono detta che avrei ripercorso la mia lettura dei primi versi della Divina commedia ambientandoli al Forlanini come se a parlare fosse Sara.
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva OSCURA,
ché la diritta via era smarrita.
In base a uno stereotipo falso la poesia sarebbe un linguaggio difficile. Al contrario, la poesia fa di tutto per mettere tra le mani del lettore un senso di parole che sia fortissimo e semplice. La rima, ad esempio, è un meccanismo per non distrarci; il grande critico Gianfranco Contini scrisse che la rima è l’ostacolo a partire da cui il poeta lavora: si mette in rima la parola dolente, quella che urta e ferisce, quella problematica; è l’urlo di una ferita, la lama di un coltello. Se Dante scrive «oscura» come parola rima, vuol dire che quello è il nucleo drammatico; occorre immedesimarsi appieno nel significato di oscurità.
Sara era precipitata dentro la tenebra, quel buio giovanile che – se non viene soccorso – precipita in una voragine sempre più oscura. Si drogava di eroina, era scappata di casa molte volte, dormiva nei garage pubblici di Roma. Ricoverata in una casa famiglia, ne era fuggita calandosi da una finestra e precipitando: la caduta le aveva procurato un codice rosso al Pronto Soccorso, era quasi morta. Poi, di nuovo fughe, droga e chissà cosa.
Il buio è una paura atavica e viscerale. È ciò che spaventa di più un bambino. A partire dalla parola «oscura» Dante crea una situazione di letterale oscurità, mette in scena l’incubo di chi si trova con gli occhi chiusi in un luogo che non conosce. Sul serio. Dopo la parola «oscura» ogni dettaglio visivo scompare, e il protagonista deve provare a uscire dalla selva usando gli altri sensi. Tasta, odora, ascolta. È letteralmente cieco.
Ahi quanto a dir qual era è cosa DURA
eSta Selva Selvaggia e ASPRA e FORTE
che nel pensier rinova la PAURA!

La prima indicazione che il lettore riceve su cos’è e com’è fatta la selva è l’aggettivo «dura». Il tatto è il primo senso chiamato in causa in assenza della vista: la durezza significa estraneità e repulsione. La selva non è un abbraccio morbido, ma è un ambiente ostile, innanzitutto nell’accezione di rigido, non malleabile, non accogliente. Duro è il cemento armato, quello scabro e misero delle stanze del Forlanini dove Sara è morta; il suo grido è rimbalzato su pareti fredde e amorfe, che non le hanno procurato altro che il rimbombo del suo dolore.
Al tatto seguono l’udito e il gusto: nella selva si odono suoni sibilanti («esta selva selvaggia) e sapori sgradevoli (aspra). La presenza del serpente, accennata dai suoni, suggerisce diffidenza e tradimento: nella selva possono nascondersi trappole. Tutto culmina in un’altra parola-rima dal significato denso: forte. È un aggettivo comune, eppure suggerisce sia informazioni uditive sia tattili. Forte è uno strillo. Forte è uno schiaffo. Sara Bosco, una ragazzina tutt’altro che forte, ha ricevuto forte sul suo corpo i segni della brutalità del mondo. Quella notte in cui è scappata dalla casa-famiglia ha sbattuto forte per terra buttandosi dalla finestra, e s’è quasi ammazzata. A suo modo ha gridato forte, di paura.

Sì, questo percorso sensoriale, breve ma intensissimo, culmina in una parola disarmante nella sua capacità di comunicare un’emozione: paura. Dante era un grande poeta, capace perfino di scrivere le rime petrose, cioè rime difficilissime. Se avesse voluto, avrebbe potuto trovare parole ben più erudite e forbite per suggerire il suo dramma, eppure no. Sceglie la parola più usata da tutti. Tutti sanno cos’è «avere paura». È così che il poeta ci prende per mano dentro la sua selva, che è anche la nostra selva. Ognuno sa, nel suo cuore, quando e perché ha detto in vita sua: ho paura!. Ognuno e tutti siamo stati nella selva.
Tremo al pensiero di immaginare che anche Sara nella notte della sua morte abbia avuto un barlume di coscienza tale da sentire paura e non abbia visto attorno a sé altro che buio, silenzio e puzza. Tremo perché sono mamma e la penso come figlia mia. Una ragazzina di 16 anni è ancora piccola e se ha paura, dovrebbe essere abbracciata dalla mamma. Piango al pensiero che lei si sia sentita sola e impaurita, anche se era stordita di droga.
Tant’ è amara che poco è più MORTE;
ma per trattar del BEN ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho SCORTE.
Tutta l’umiltà di Dante è contenuta in questi versi.
Facciamo il punto: il poeta s’imbarca nell’impresa di scrivere un poema, un poema che alla fine sarà costituito di 100 canti e circa 20.000 versi. Eppure, alla fine del settimo verso s’incontra la parola morte, che è equivalente a fine. Quando il protagonista muore, la sua storia finisce. Un progetto ambizioso naufraga dopo sette versi. È una tragedia, non una commedia.
È una tragedia come quella di Sara la cui vita doveva essere un poema più lungo, che ha incontrato troppo presto la parola morte. La storia di Sara ha trovato un definitivo punto fermo a soli 16 anni, cioè a poca distanza dal suo inizio; invece, la storia di Dante, pur incontrando presto la parola morte, non si ferma a un punto fermo, ma va avanti.
Com’è possibile? Com’è ragionevolmente possibile?
Non solo. La quinta parola che Dante scrive dopo «morte» è «bene». Com’è possibile? Com’è ragionevolmente possibile passare dalla fine a un lieto fine in così breve spazio?
Questo è il luogo poetico in cui si passa dalla tragedia alla commedia; e si può onestamente arrivare alla commedia solo avendo conosciuto la tragedia. Un uomo che non abbia seriamente preso in considerazione la morte, cioè la sua finitezza, non può comprendere con la ragione e abbracciare col cuore l’unica ipotesi che sconfigge la morte.
Tutto sta in piedi grazie a una parola piccolissima, a una congiunzione avversativa: MA. Questa paroletta è quella che usiamo per descrivere certi momenti in cui le cose non vanno come volevamo. Avevamo deciso di fare una passeggiata, ma è venuto giù il diluvio. Volevo fare una torta, ma mi mancava il lievito. Eccetera …
Si chiama avversativa, perché è una congiunzione che introduce qualcosa che va in direzione opposta (ad-versa) rispetto a ciò che la precede. Etimologicamente è uguale ad «avversario» che è proprio colui che viene in direzione opposta e sbarra la strada, ad esempio, al calciatore che vuole fare gol.
Però è anche simile alla parola «avventura» (ad-venio). Un avversario può portare un’avventura. Qualcuno che introduce nella tua vita un’ipotesi non preventivata, può salvarti la vita. Ecco quel che accade a Dante. Il poema è tale, cioè è una storia che va oltre la morte, perché qualcuno arriva incontro a Dante procedendo in direzione opposta alla sua. Il cielo lo soccorre e manda incontro a lui Virgilio e Beatrice. Loro due sono «avversari» perché chiedono a Dante di essere seguiti su un percorso diverso da quello preventivato dal poeta: lui voleva uscire dalla selva salendo su un monte, loro lo conducono fuori facendolo innanzitutto scendere all’inferno. Ne deriva un bene. Non solo Dante esce dalla selva, ma in 100 canti e circa 20.000 versi ci racconta di aver trovato un luogo in cui la felicità è esperienzialmente possibile.
Ritorniamo, però, ai primi versi del poema.
Dopo questa clamorosa inversione di marcia, dopo il «ma» il lettore scopre che l’oscurità è scomparsa. Il bene si vede subito perché s’incontra come parola rima il participio passato «scorte». Il verbo scorgere è il primo indizio visivo dopo una pausa di buio. Qui il poeta vede di nuovo, o meglio scorge: intravede, comincia pian piano a distinguere qualcosa di luminoso. C’è di più. Ancora una volta, la parola-rima è potente. La scorta, infatti, è la persona che accompagna ed è anche la riserva di cibo.

Nel giro di soli 9 versi Dante ci ha anticipato il senso profondissimo del suo viaggio: l’oscurità in cui precipita l’essere umano è stata soccorsa da una compagnia che ha offerto nutrimento all’anima e ha snebbiato la vista. Se, dopo 7 secoli, ha senso leggere e raccontare ad alta voce la Divina commedia è per questa esperienza di speranza vissuta. È per rispondere al grido strozzato di chi – come Sara Bosco – arriva alla morte troppo presto e non vede via d’uscita al buio.
Chi ha conosciuto che un’avventura diversa dalla selva oscura è possibile, chi si è lasciato condurre da un avversario buono, non può e non deve tacere.
Grazie, è bellissimo! Non mi ero mai fermata a riflettere su quei primi versi che ho sempre un po’ dato per scontati, e invece me li hai fatti riscoprire! La vicenda di Sara è terribile, e, lo so che questo è solo a latere, ma è tremendo anche che il Forlanini ora sia in quello stato, da centro di eccellenza che era (ed è una cosa che colpisce molto noi a casa, perché ci lavorava mio nonno).