Morte, venga il tuo regno

Ma non riuscii in alcun modo a far loro accettare che fosse inverno.

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Moltissimi stanno piangendo la morte di Chester Bennington, taluni non piangerebbero se si scegliesse la morte per Charlie Gard. In questo tempo di suicidi eccellenti ed eutanasie urbi et orbi, mi ritorna a galla un pensiero balzano: la morte è una cosa buona e giusta.

Forse il talentuoso Chester lo avrà pensato, il suo cuore tormentato avrà visto nel sonno eterno qualcosa di più buono dei mostri che gli attanagliavano l’anima; forse certi dottori pensano che staccare la spina sia il gesto più buono che si può fare verso un bambino come Charlie, che lotta con una malattia gravissima.

No, non è in questo senso che ho rimuginato sulla bontà della morte; non è nell’accezione con cui si vuole giustificare un suicidio o un’eutanasia che trovo il valore provvidenziale della morte.

Semmai è il contrario. La morte ci svela il suo lato buono, quando è crudele: inaspettata. È una forza la cui azione non dipende da noi. Malattia, incidente, vecchiaia; quando accade naturalmente, cioè all’interno delle imprevedibili, tragiche variabili della realtà, è corretto dire che noi subiamo questo estremo evento che ci spegne.

Subire è un verbo che ci piace poco. Ma è l’ultimo di cui faremo esperienza sotto il sole. Accoglieremo nel nostro corpo la venuta della Signora con la Falce e sarà lei a condurre un gioco a noi sconosciuto. Qualcuno, il Santo di Assisi, ha osato chiamarla Sorella: «Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale». Perché? Perché chiamarla con un nome parentale affettivo? Perché lodare?

Subire è un verbo che significa andare sotto, magari viene spontaneo associarlo all’idea di finire sottoterra; vorrei invece pensarlo in termini archeologici, scavando sotto può venire alla luce un reperto inestimabile e invisibile dalla superficie.

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Foto di Eric Vondy

Il signor Gilbert Chesterton scrisse un libro entusiasmante in cui si prefissava di difendere le cose generalmente definite brutte: tra queste difese anche gli scheletri. Il suo discorso comincia dalle scuse rivoltegli da certi contadini per la presunta bruttezza di certi alberi; GKC visitò un antichissimo bosco inglese in inverno, trovandosi immerso tra tronchi nudi. I contadini del luogo erano avviliti, avrebbero preferito che quel celebre scrittore avesse goduto del luogo durante il meraviglioso rigoglio primaverile ed estivo.

Chesterton li rassicurò:

Quando quel salutare asceta chiamato inverno passa il suo enorme rasoio su colline e valli, e tosa tutti gli alberi come monaci, vedendoli spogli sicuramente si ha l’impressione che assomiglino ancor di più a degli alberi.

( da L’imputato, in difesa di ciò che c’è di bello nel brutto del mondo)

Gli rimase però nel cuore lo sconforto di quegli uomini che si scusavano per lo spettacolo ritenuto sgradevole: «Ma non riuscii in alcun modo a far loro accettare che fosse inverno».

Ecco il punto rispetto a cui occorre fare una vigorosa capriola. Subire, accettare l’inverno può essere la strada per scoprire una bellezza profonda. L’albero è più albero in inverno.

Non mi permetterei mai di dire che le foglie sono una cosa brutta; la loro varietà di forme e di colori mi lascia incantata a ogni primavera, lo stormire delle fronde è una ninna nanna quasi materna. Però proviamo ad inoltrarci sul sentiero di un paradosso coraggioso. E se fosse un’indicazione preziosa per la vita ricordarsi che l’ultima cosa di cui corporalmente faremo esperienza sarà una privazione, una sottrazione?

Da questo punto di vista noi incontriamo la morte molto spesso durante la vita, tutte le volte in cui i nostri progetti vanno a monte, o ci accorgiamo di aver preso la strada sbagliata e cambiamo, o un’idea bellissima ci si smonta tra le mani, o falliamo in un’impresa a cui ci siamo dedicati anima e corpo. Muore qualcosa di noi, viene meno.

Qualcuno disse che solo il seme che muore dà frutto. Per lo stesso motivo per cui per vedere bene la strada occorre pulire i vetri dell’auto. Il nostro io più sincero non ama mostrarsi in superficie, il suo compito è stare dove ci sono le fondamenta e curarle; al nostro orgoglio invece piace molto l’aria fresca e luccicante che si respira esibendosi ai quattro venti.

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Foto di Aldo Van Zeeland

L’albero è più albero in inverno; cioè: se un qualunque rasoio passa ad accorciare l’orgoglio, è probabile che il tronco dell’io emerga alla nostra vista. E non è detto che abbia un aspetto mirabolante o affascinante, eppure la sua nudità è la bellezza più grande di noi. L’unico compito che abbiamo nella vita è scavare in cerca di questo io nascosto, originario, piccolo, autentico, delicato, prezioso.

E non ci si arriva grazie ad azioni volitive come «ottenere», «aggiungere», «aumentare», «moltiplicare». Tutti questi sono mascheramenti. L’unica strada è quella che passa dal subire ed è un percorso di approfondimento tutt’altro che passivo. Cosa vedo di me allo specchio quando mi strucco? Cosa ci vedo quando ho pianto per una sconfitta? Cosa ci vedo quando una sofferenza mi ha prostrato a terra? Cosa ci vedo quando sono stato licenziato?

Il rasoio della morte è questa vista nuda, senza fronzoli di circostanza. In questi momenti cruciali sentiamo una voce che sale su dal profondo, forse sussurra solamente. È l’umiltà della radice che nutre la pianta. Le foglie sono bellissime, ma con loro l’albero non potrebbe reggersi in piedi. Così è per l’orgoglio, quella debordante maschera che, finché tutto procede bene, regge e governa la nostra volontà. Non è esclusivamente negativa, si chiama anche tenacia, desideri grandi, sogni. Ma è un regno in cui siamo noi a tenere il rasoio in mano. Tagliamo quello che non ci piace. Chester Bennington ha tagliato la sua vita nel punto in cui voleva lui; qualcuno vorrebbe fare la stessa cosa con Charlie, perché non vede nulla più di vita in lui

È paradossale rendersi conto che solo quando è la realtà a tenere in mano il rasoio che emerge la luce più intensa di noi. L’umiltà di una batosta è un colpo benedetto per cambiare prospettiva, senza essere masochisti. Lì, nel buio di una perdita viviamo il privilegio di vivere a tu per tu con noi stessi, ci conosciamo a nudo, ci guardiamo per intero. E questo è fiorire, il frutto del seme che muore. Forse in questi momenti di vera autenticità siamo solo capaci di balbettare o sospirare. È il tessuto scabro del vero.

Quante storie abbiamo sentito di gente che ha cambiato vita dopo un dolore, un incidente, una sconfitta e ha ritrovato se stessa? Queste voci colpiscono sempre per l’entusiasmo vivo con cui ci contagiano. Insinuano la coraggiosa ipotesi che la sottrazione sia un’occasione.

Più ci penso, ed è balzano lo so, più sento che il senso della vita non sia nei riconoscimenti, nei traguardi, nei premi, ma in questi attimi fuggenti di sincerità nuda: poter guardare a se stessi e ascoltarsi, per una volta, senza fronzoli. Io sono. Punto e basta. Capirlo sempre più fondo, a suon di riduzioni.

Ogni piccola tappa nel percorso della vita non è altro che un passo verso una coscienza più baldanzosa nell’accorgersi del «io sono». Anche se non «sono bravo», «sono direttore», «sono impegnato nelle cause sociali», «sono chef».

Qualcuno ha voluto la mia presenza nel mondo, senza accessori, senza competenze, senza se e senza ma. Se il Padreterno avesse voluto che la vita fosse un fiorire di eccellenze e bravure non avrebbe scelto come scena finale una diminuzione, ma un tripudio di moltiplicazioni. Il finale deve per forza essere un’esaltazione del senso di una storia. Cosa esalta di noi Sorella morte? La ridicola finitezza? L’impotenza? Non credo.

Credo che sia il riflettore che illumina il protagonista: la presenza di un piccolo essere irripetibile, così prezioso da passare all’eterno.

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Foto di Vladimir Pustovit

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