Sono solo canzonette; sì, ma le ascoltiamo. Durante gli spostamenti, nelle sale d’attesa, mentre puliamo casa, in palestra sulla pedana, le ascoltiamo queste canzonette. Sono i ritornelli che accompagnano il tran tran quotidiano e, se ci piacciono, ci restano in testa e le canticchiamo sotto la doccia. Niente di clamoroso, eppure ci accompagnano e hanno qualcosa da dire.
Chesterton mi ha insegnato a cercare a occhi sgranati l’oro nelle bancarelle dell’umano a buon mercato, a non fare la sofisticata che non sono, a essere proprio ciò che sono: una persona comune in mezzo a persone comuni.
Non snobbo Sanremo, lo guardo sempre. Ma non sempre colgo al volo la bellezza di una canzone. Quest’anno mi era completamente sfuggita quella della risorta band de Le vibrazioni. Eppure ho sempre apprezzato la vocalità di Francesco Sarcina e i suoi testi.
Qualche sera fa, era notte in effetti, rientravo a casa in auto da un impegno di lavoro; dovevo tenere gli occhi sgranati per non sbandare in una stradina stretta di campagna. Era il momento giusto per apprezzare la canzone Così sbagliato che la radio ha mandato.
Portami a casa, grida nel ritornello Sarcina. E io pensavo ai miei figli, già nel loro letto a dormire, volevo essere con loro; ero al buio sola per strada, e volevo essere a casa. Ero Ulisse, ero la nostalgia che da millenni abita nel cuore degli umani. Casa è un lungo fisico che è anche luogo dell’anima. Casa è un abbraccio che sciolga il freddo delle contraddizioni che ci ghiaccia.
Portami a casa
Salvami ancora
Da queste mani fredde e viola
Riportami a casa
Perché ho paura di me
Tienimi stretto al buio e dimmi
Che mi vuoi bene anche così
Mi vuoi bene anche così
A chi parla chi canta? Alla donna amata, alla madre di suo figlio. Perché casa è tutt’uno con famiglia: è il luogo in cui l’io cede il posto al noi, e si salva dal cortocircuito delle proprie fissazioni. Solo uno che mi ama può dirmi “vai bene anche se sei sbagliato” ed essere credibile. È il paradosso del perdono: deve arrivare da un altro.
Mi vuoi bene anche così
Sbagliato sbagliato sbagliato
Nel mio vestito vuoto vicino a te
E tu mi raccogli comunque
In mezzo ai vetri e puoi farmi credere
Che sia perfetto anche così
Che mi ami anche così
Sbagliato
Una parola molto gettonata è imperfetto; è di moda non essere perfetti. I profili Instagram sono pieni di mamme imperfette, fotografi imperfetti, scrittori imperfetti. Vuol dire tutto e niente; in più dà l’idea di essere limitrofi alla perfezione.
Quanto a me, vorrei non ci fossero dubbi: sbagliato è ciò che mi descrive meglio. A tu per tu con lo specchio, di macchie addosso, dentro, ne vedo di brutte, scomode, indelebili. Negli errori ci ricado; i peccati bussano, entrano e banchettano col mio orgoglio; alle persone che si meritano il meglio do il peggio. Non sono imperfetta, sono proprio sbagliata.
Quando mi sento figlio e sono un padre
E tu mi dici che
Non è così sbagliato sbagliato sbagliato
Eppure, la nostalgia di una casa è bruciante: ho bisogno di un luogo preciso, di una voce precisa che abbiamo compassione di me. Ho bisogno di sentire che la mia persona perennemente capace di sbagliare non sia un vuoto a perdere.
Anche io sono madre, ma mi sento figlia. Sempre. E non è infantilismo, ma dipendenza come quella dei miei bimbi che mi fissano imploranti appena mi avvicino al frigo. Anche io imploro un nutrimento, un concime buono, da un padre è una madre.
Mi ami anche così sbagliato ?
A chi lo chiedo, io? Certo a mio marito, tutti i santi giorni. E lui sorride, o litiga con me in un modo che mi consola di tutte le mie paure. Ma so che lui è il traduttore di una voce che viene da più lontano, dal Golgota ad essere precisi.
Le mie mani fredde e viola, in mezzo a questa ondata di freddo siberiano, attendono come ogni anno il tepore della primavera, della natura che fiorisce di nuovo, del mistero della Resurrezione. Aspetto la Via Crucis di Chi tutti i miei sbagli se li è messi sulle spalle e poi li ha sciolti in un abbraccio eterno nel giorno di Pasqua.