Un samurai in una torre d’avorio
Vorrei portare tutte le mie ferite in tribunale e condannare all’ergastolo chi me le ha inflitte. Essere un eccellente pubblico ministero che espone i casi a una giuria attenta ed empatica. Vorrei argomentare e mettere sul tavolo prove inequivocabili. Poi interrogare gli imputati con parole esatte e puntute per metterli all’angolo, in ginocchio. E poi vorrei godermi l’ascolto di un verdetto pronunciato a voce alta: “colpevole”. Voi – e ho in mente facce, momenti, fatti – siete tutti colpevoli se mi porto addosso questa posa sfiduciata, amara, impaurita nella vita di tutti i santi giorni.
Ognuno ha i suoi tribunali, si costruisce recinti e occasioni per raccattare sentenze di condanna che servono a leccare ferite che non guariscono. Il mio recinto-tribunale è scrivere. Mettere nero su bianco, pubblicamente, quel grido che dice “non è giusto” e se ne sta nell’antro della mia anima da quando ero piccola e scoprii che le favole non finiscono bene. Finiscono male proprio lì dove il tuo cuore si è lasciato guardare nudo nel suo bisogno di amore, ed è stato tradito.
Anche parlando d’altro, raccontando storie o fatti di cronaca che non c’entrano nulla, scrivo per stanare nelle voci altrui un verdetto che riconosca che io sono parte lesa. (E certo che sono superba, sì. Perché anche io ledo).
Ho visto la miniserie Anatomy of a scandal e tutto questo magma intimo è venuto a galla, grazie al personaggio di Kate Woodcroft (Michelle Dockery). E’ stato come guardarmi allo specchio. Distaccata e forte di una forza autoalimentata dalla vulnerabilità. E’ un pubblico ministero d’acciaio: stacanovista nel lavoro, algida e ferale in aula, sola nella vita. Un samurai in una torre d’avorio.
Nel girone delle parte lese
Noi Woodcroft siamo così: abbiamo amici sinceri, tanti che ci vogliono bene di cuore. E lo riconosciamo, ma scegliamo di restare sole a combattere. Anche questa è una brutta posa autoinflitta, sentirsi in dovere di raccogliere da sole le strategie e le armi come fossimo un cucciolo d’uomo perduto in una giungla piena di animali velenosi e feroci.
La miglior difesa è l’attacco, si dice. Nel caso di Kate Woodcroft la motivazione che la rende in aula una macchina da guerra indistruttibile è proporzionale alla profondità della sua ferita. Stupro.
Lo stupro è una penetrazione violenta che lacera corpo e anima. E se l’incubo di una violenza carnale non è nella nostra storia, possiamo però annoverare eventi in cui le persone, i casi, le mille aggressioni del mondo ci hanno penetrato contro la nostra volontà.
Hanno forzato la nostra vulnerabilità con l’indifferenza o la logica del profitto, con la consapevole volontà di colpire duro per metterci fuori gioco, con l’egoismo che brucia ogni prato che attraversa. Con punte affilate o piedi pesanti l’esterno si fatto strada a invadere le stanze intime delle nostre paure e delle nostre debolezze. Senza consenso, contro il nostro volere ci hanno fatto male.

Ci hanno messo nel girone delle parti lese che implorano … cosa implorano? Vendetta o giustizia? Pietà o occasioni per colpire e sfogarci a nostra volta? Tutto insieme, rispondo io. Perché nessuna di queste strategie di cura è buona, e allora alla rinfusa le accattasto. Provo anche con dosi massicce di bravura, ma perfino gli applausi non funzionano.
Come Kate Woodcroft mi riconosco nel ruolo auto-conferitomi di pubblico ministero. Inflessibile e calcolatrice, una testa sempre al lavoro. Una smania costante che ci siano giudici e giurie a cui mostrare i colpevoli che vorrei vedere umiliati, riconosciuti cattivi, meritevoli non solo di una pena ma anche di un coro di pubblico biasimo. Ho questa sindrome di perfezione e durezza piantata dentro. Non voglio essere colta in fallo, posso sempre lavorare di più e meglio. Ho solo le mie capacità da opporre alla furia omicida degli imprevisti e delle cattiverie esterne.
E cosa accade poi nei miei tribunali allestiti con l’impeto di questo ringhio perenne che fuori non si vede? E’ mai capitato – mi chiedo – che anche quando di sbieco hai raccattato qualcosa interpretabile come una sentenza favorevole si sia messa in pace quella ferita? Mai.
Non è giusto, non è mai giusto quello che capita. Può essere molte cose, stupefacente o terribile. Ma mai giusto. La bilancia non sta mai in equilibrio, non offre mai una posizione di ferma serenità in cui ogni cosa è a posto.
Non leggi ma un solo comandamento
Leggi, giustizia, tribunali, accusa, pubblico ministero, imputati. E’ il mio cortocircuito, quello che sono capace di costruire con le mie sole forze e le forze di me da sola. E non serve a niente.
Non ho bisogno di leggi, ma di un comandamento. Il primo. “Non avrai altro Dio all’infuori di me“. Per uscire dalla morsa crudele in cui mi sono cacciata non basta un invito (del tipo: “Per cortesia, smettila di essere di guardia perennemente a bruciare vivi i nemici”), ci vuole un comandamento irrevocabile che suoni come: piantala, ti licenzio!
Ti licenzio, passami il comando. Quello che suona come un atto imperativo di Dio, è la forma suprema di carità paterna. Quello che suona come dittatura è una carezza tenerissima. Ecco cosa significa il primo comandamento per me, se solo fossi capace di accogliere in tutto e per tutto l’affidamento che mi chiede:
“Non avrai altro Dio, sono io che il sostegno del mondo e della tua vita. All’infuori di Me c’è solo il regno freddo, coercitivo e irrisolto in cui tu ti fai sovrana di eventi che non sai dominare. Lascia che sia io il tuo Dio: più hai paura più lascia cadere gli scudi che ti sei costruita. Lascia a me il compito di difederti. Sii debole, concediti la piccolezza dei figli. Non irrobuistirti di ira e terrore, resta nuda ed esposta come quando esigevi un amore vero che non è stato corrisposto. Io che sono il tuo Dio lo corrispondo più di quello che ti aspetti di ricevere. Più il mondo colpisce duro, più abbandonati tenera alle mie mani che sono robuste. Non devi essere forte, devi sapere che ti amo. E io ti amo perché non avrai alto Dio all’infuori di Chi ti ha voluta e ti porterà a casa sana e salva, senza guarire le tue ferite ma trasformandole nello spazio aperto in cui il mio Amore si pianterà più forte e più presente e – se mi dai tempo e lo concedi a te stessa – fecondo”.

Grazie Anni!
Grazie. ❤